50enni dal viale del tramonto al chirurgo plastico
Nell’incipit de Il corpo delle donne (Feltrinelli, 2010) l’autrice, Lorella Zanardo, racconta lo stupore e lo sconvolgimento nell’accendere la televisione nel pomeriggio e vedere una donna di mezz’età su un lettino, come in una sala operatoria, con medici e presentatori che simulano un intervento di lipoaspirazione. All’interno del libro, alcune immagini mostrano momenti di programmi televisivi in cui si plaude all’intervento chirurgico estetico al seno – che nulla ha a che fare con operazioni successive a un carcinoma – con palpazione della cavia in presenza.
The substance, il film di Coralie Fargeat ancora nelle sale con successi incerti, propone lo stesso sguardo misogino, spudorato, consumista e rapace sul corpo delle donne. Elisabeth, interpretata da un’ottima Demi Moore, è il volto di un celeberrimo programma televisivo americano di fitness. La sorprendiamo nel giorno in cui compie 50 anni in una forma fisica eccellente e, nonostante questo, viene cassata dal palinsesto. Di ricambio è fatta la società e in particolare quella dello spettacolo, ma la regista, che ha 48 anni, impernia tutta la sceneggiatura sul fatto che l’annuncio venga confezionato proprio al raggiungimento dei cinquant’anni, inducendo Elisabeth a mettersi in trappola con “The substance”, ovvero sottoponendosi a una dolorosa clonazione di sé stessa in versione giovane.
Guidata da una specie di memoria istintiva, sono andata a rivedere Sul viale del tramonto, finalmente trovando la frase che cercavo, cioè quando Joe Gillis (William Holden) rimprovera a Norma Desmond (Gloria Swanson): «Tu sei una donna di cinquant’anni. Apri gli occhi!». Swanson-Norma con i suoi amici incartapecoriti, sembra la rappresentazione della vetustà. Il film di Billy Wilder è del 1950, ma non molto è cambiato. Al corpo delle donne mature continua a non essere concesso di piacere alla gioventù, come dimostra l’altissimo ascolto di Inganno di Pappi Corsicato, una serie tivù piuttosto soap con Monica Guerritore che a sessant’anni ha un rapporto carnale e sentimentale con un trentenne. L’avidità con cui la serie è seguita, schizzando al vertice delle classifiche, è spinta dalla generale incredulità e scabrosità di quel legame oltraggioso per la morale. Mentre l’inverso è più che accettato, anche se ormai meno frequente.
«Assisto alla cancellazione dei volti delle donne mature dallo schermo televisivo come un’onta, una vergogna, un sopruso terribile contro tutte noi», scrive ancora Zanardo. A quarant’anni sono molte le donne che tirano quasi un sospiro di sollievo: niente più cat calling, niente più ammiccamenti consci o inconsci sulle rotondità fisiche, dal fruttivendolo al rapporto professionale. Finisce il tempo in cui una donna è “troppo bionda, mora o rossa” per essere anche intelligente, troppo piccola per non aver bisogno di essere “protetta”, troppo acerba “per essere presa in considerazione”. Ma quasi per tutte, a prescindere dalla forma fisica, raggiungere 50 anni è imperdonabile, una colpa verso la società. Senza volerlo, sono molti i maschi che non celano la propria delusione di fronte all’invecchiamento femminile: «Ma io ti ricordavo…», come se la donna non avesse messo abbastanza impegno a conservarsi una smagliante ventenne. A dispetto del film sci-fi-horror, artisticamente non riuscito, ma personalmente intrigante fino alla prima parte, quello che mette in rilievo The substance è che, nonostante tutti i propositi e i passi avanti, la nostra società è ancora legata a una tribale questione riproduttiva. A cinquant’anni, chi prima chi dopo, la donna entra in menopausa, il che sancisce l’impossibilità di procreare, cosa che non avviene per gli uomini. Siamo ancora dunque fondati sulla primitiva, ancestrale, crudele idea che la donna in fondo sia, prima di tutto, una macchina riproduttiva, un utero. Mi affiorano in testa alcuni versi di Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, anche se probabilmente l’autrice li ha scritti per altri motivi: «Chi mai potrà misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando rimane preso e intrappolato in un corpo di donna?».
Le donne sono sempre sotto “giudizio fecondativo”. Se i figli hanno qualche grosso problema, è sempre legato a una madre assente (soprattutto se lavora) o troppo protettiva. Se non hanno figli, perché non usano la propria capacità riproduttiva, come se sprecassero un talento. Se non possono averli sono trattate come se avessero attirato una maledizione o uno stigma. Agli uomini non viene richiesto un ruolo da fuco e non attirano un giudizio collettivo sulla mancata paternità.
Fonte: Il Sole 24 Ore