Renato Del Din, il partigiano “perfetto”
L’8 settembre 1943 come estremo opposto al 2 giugno 1946, alla nascita della Repubblica italiana: due date distanziate da circa un biennio, tra il caos polveroso e la necessità di ricostruire un ordine politico e sociale, ma di più, etico e morale. Il proclama del generale Badoglio annunciava un cruento “tutti a casa”, per citare il film di Comencini, quando il sottotenente interpretato da Sordi e sotto il fuoco tedesco, dichiarava nello sconcerto totale: “I tedeschi si sono alleati agli americani”. Una sentenza strozzata che rivelava lo stato di disorientamento dell’esercito italiano, ma anche della popolazione spaventata, alludendo alla guerra civile a cui condussero le fasi più accese della Resistenza sino alla Liberazione. Ci fu chi aderì alla Repubblica di Salò e chi si rifiutò categoricamente, finendo tra gli oltre seicentocinquantamila militari internati nei campi di concentramento del Reich. Nello stesso contesto ci fu anche chi decise di combattere sul campo.
Patrioti
Se il fuoco ci desidera. Breve vita di Renato Del Din che l’8 settembre 1943 scelse la libertà (Utet, 2024, pp. 192, euro 19) è il titolo della biografia romanzata che Alessandro Carlini ha dedicato alla tragica vicenda del sottotenente degli Alpini che, con la sorella Paola, si votò a una scelta resistenziale. Senza tralasciare che proprio su Paola Del Din, medaglia d’oro vivente al valor militare, Carlini ha già pubblicato Nome in codice: Renata (2023). A muovere i due fratelli furono ragioni familiari e territoriali, propriamente patriottiche. Erano figli di un tenente colonnello degli Alpini, il padre Prospero, assegnato al confine austriaco dopo l’assassinio del cancelliere Dollfuß, nel 1934. Da sempre gli Alpini sono un corpo con un marcato senso del dovere nei confronti della patria, un senso immancabile di responsabilità, e tra loro dominavano sentimenti anti-tedeschi che maturarono a seguito della ritirata del Don dove furono abbandonati dagli alleati nazisti.
Il comandante Anselmo
“Il sacrificio tuo sarà inutile, non solo, ma la gente come te sarà giudicata nemica della Patria e guarda che non vale il giudizio dello straniero, ma quello della nostra gente”, scriveva Del Din nell’ultima missiva all’amico ufficiale che, compagno della divisione alpina Julia, aveva seguito il regime fascista diventando oramai un nemico. Dopo il fatidico armistizio, Renato combatté prima con una formazione azionista, poi con i garibaldini nel sabotaggio di un ponte, sino ad assumere “comandante Anselmo” quale nome di battaglia e a indossare il fazzoletto verde della Brigata Osoppo, tanto simile a quello azzurro dei badogliani che liberarono le Langhe. Era una figura “fenoglianamente” perfetta, come Carlini sottolinea nel volume, inseguendo la serie di parallelismi tra la vita del sottotenente, che non sparò un colpo in guerra se non da partigiano, e quella del Johnny di Fenoglio. Erano accomunati da una determinata solitudine, capace di innumerevoli rinunce, e dall’avere messo la lotta per un’Italia migliore prima di ogni cosa.
La corruzione morale dei fascisti
Per la prima volta, inoltre, lo scrittore e giornalista ha dato alle stampe scritti e lettere del sottotenente, che sebbene non si ispirasse a una particolare ideologia mostrava un disprezzo viscerale per il fascismo, le camice nere “pronte a vendere la loro sorella al miglior offerente” e Mussolini, arrivando a invocare una Resistenza unita e guidata dall’esercito insieme ai partiti. “Lo spirito ancora vivo dell’esercito fra le masse contadine impedisce (assieme allo spirito comunista per gli operai, alle teorie dei vari partiti per gli appartenenti) che il fascismo abbia presa nuovamente, ecco dunque ancora l’esercito in linea efficientemente nella lotta antitedesca e antifascista”. Morì simbolicamente il 25 aprile del 1944, a ventun anni, nell’assalto dell’Osoppo contro la caserma della milizia di Tolmezzo, che in precedenza era stata una scuola elementare, dove l’odiato duce aveva insegnato tra il 1906 e il 1907. Tuttavia la dimensione epica della sua storia andò oltre una raffica di proiettili.
Il corpo del ribelle
Nelle foto di archivio il corpo del guerrigliero morto sembra quello di un Che Guevara, denudato in toto dai nazifascisti e privato così dell’identità. A farlo fotografare erano stati proprio gli inquirenti repubblichini, casomai qualcuno dei parenti si fosse presentato a riconoscerlo. Ma questo non accadde e permise alla gente del paese di idealizzarlo a figlio caduto, di famiglia in famiglia, per risvegliare le loro coscienze. Il giorno del funerale, il 27 aprile, centinaia di donne accompagnarono il feretro e piansero per lui, come Antigoni senza nome dentro una sorta di rituale civile, ma anche religioso, e al contempo con un profondo significato di ribellione verso l’oppressore.
Fonte: Il Sole 24 Ore