Art Basel 2024: cogliere i semi del contemporaneo

Può convincere, persino entusiasmare, così come spiazzare e deludere: certamente Art Basel non lascia indifferenti, e si conferma, sotto la prima direzione di Maike Cruse, una preziosa vetrina sull’arte contemporanea internazionale, un osservatorio privilegiato dal quale passare in rassegna tendenze emergenti, scoprire novità, assistere a conferme e persino intuire i processi di storicizzazione dei maestri del nostro presente.

Quasi trecento gallerie coinvolte

L’edizione 2024 della più importante fiera internazionale di arte contemporanea – fondata nel 1970, con oggi quasi trecento gallerie coinvolte, tanto da meritarsi la definizione di “Olimpiadi dell’arte” da parte del “New York Times” –, ci pare valorizzare in particolare tre fondamentali ambiti di ricerca creativa: la questione ecologica, intesa non solo come indagine estetica dell’ambientalismo, anche come investigazione di una poetica del rapporto uomo-natura, mediante una riflessione non dualistica sui poli fondamentali di questo legame, dai tratti propriamente cosmologici (natura e cultura, organico, inorganico, individuo e specie); la questione politico-sociale, con l’esibizione di un’arte engagé, impegnata nella difesa dei diritti umani, delle minoranze e delle popolazioni oppresse (sicuramente farà discutere l’attualissima opera di Kader Attia “Intifada: The Endless Rhizomes of Revolution”), nonché nella riflessione – talora influenzata dalla vague woke – sulle contraddizioni inscritte nella storia dell’autocoscienza occidentale; l’apporto estetico delle culture “altre”, siano queste minoranze in seno al mondo occidentale o, più spesso, espressione di tradizioni orientali o dei Paesi emergenti – sbalorditive, in tal senso, le creazioni “aliene” di Omyo Cho, modellazione plastica dell’universo sci-fi e sguardo futuribile sui processi di trasmissione della memoria.

“Unlimited”

A far da sfondo a queste tematiche è la celebrazione della creatività dei grandi maestri del Secondo Dopoguerra e dell’inizio del nuovo millennio: Emilio Isgrò, Christo, Dan Flavin, Keith Haring, Donald Judd, Jannis Kounellis, Yayoi Kusama, Salvo sono fra i nomi più prestigiosi di questa edizione, valorizzati in particolare nella sezione “Unlimited” (a cura di Giovanni Carmine), 16.000 metri di spazio dedicati a installazioni monumentali, che trascendono i parametri classici di una esposizione fieristica, mostrando la monumentalità che caratterizza il gesto artistico di una consistente fetta dell’espressività contemporanea. Qui sono esposte settanta installazioni, comprensive di evocativi esempi di video art, che s’impongono sui visitatori desiderosi di essere meravigliati.

L’interattività di numerose opere determina una partecipazione attiva nella loro fruizione da parte del pubblico: si entra in un “parco giochi” paradossalmente serissimo, in cui la riappropriazione del valore del gaming re-incanta il mondo e ci ricorda la nostra essenza di “homo ludens”, per menzionare la celebre intuizione di Johan Huizinga.

Intellettualizzazione dell’esperienza artistica

Fil rouge dell’intera esposizione è il concettualismo che pare dominare le poetiche selezionate per l’evento: pochi esempi di figurativo (in pittura come in scultura), poco decorativismo (spicca però, proposta da Gagosian, una splendida opera di Damien Hirst, a tema farfalle), sorprendentemente poca intelligenza artificiale, quasi nessuno spazio concesso alla pop art o a forme di estetica visivamente appagante – certamente anche sulla scorta della diffusa critica alla bellezza “a tutti i costi” che regola la nostra quotidiana società dell’immagine, Art Basel rifiuta la likeness e induce alla riflessività, premiando il ruolo filosofico delle opere che suggeriscono dubbi, considerazioni e meditazioni. Il rischio, sempre dietro l’angolo, è quello di una intellettualizzazione dell’esperienza artistica e di una perdita della centralità della sua dimensione sensibile. Così, in “School of Languages” Ryan Gander ci propone una trattazione dell’evoluzione umana, unita a una critica al capitalismo, mediante una installazione comprensiva di uno studio, una scrivania e un pupazzo a forma di gorilla in dimensioni naturali e automoventesi, ma è un’occasione mancata.

Fonte: Il Sole 24 Ore