Mirandola, per il distretto biomedicale servono dazi contro i dispositivi cinesi (come a Sassuolo)

«Il distretto biomedicale deve chiedere all’Europa dazi antidumping per fermare la metastasi dei prodotti cinesi. Non saranno certo le multinazionali straniere insediate qui a Mirandola a muoversi in questa direzione, per loro sarebbe autolesionistico. Serve un capofila del territorio che coalizzi e rappresenti le istanze delle imprese locali». Non usa giri di parole Alberto Forchielli, intervenuto alla Biomedical Valley, evento arrivato alla sua quarta edizione nato proprio per colmare un gap di rappresentanza mettendo a confronto e a rete il tessuto produttivo locale di big, Pmi e start-up. Un ecosistema di un centinaio di aziende, 5mila posti di lavoro e un giro d’affari di almeno un miliardo (ma non esistono osservatori economici aggiornati) che gode apparentemente di buona salute – l’export 2023 è cresciuto di oltre il 23%, in linea con i tassi di crescita dei fatturati aziendali – ma la cui competitività (e sopravvivenza) è appesa al filo sottilissimo delle decisioni di investimento e di localizzazione delle multinazionali estere – Livanova, Fresenius, B.Braun, Medtronic-Mozarc, Baxter, Intersurgical – che danno lavoro all’intera filiera mirandolese. Come sta dimostrando la vicenda di questi giorni legata al destino di Bellco, azienda storica che rischia di sparire, e con lei 350 posti di lavoro, perché la nuova proprietà di Minneapolis non ha convenienza a mantenere in Emilia la produzione di commodity, di fronte alla concorrenza low cost asiatica.

L’assenza di capofila nel distretto biomedicale

Forchielli parla prima di tutto come imprenditore del distretto, perché dal 2020 attraverso il suo fondo Mindful Capital Partners (ex Mandarin) controlla Sidam, player consolidato di Mirandola, che l’anno dopo ha inglobato anche la piccola Emotec. Il gruppo non solo sta crescendo a ritmo spedito – Sidam, 32 milioni di euro di fatturato e 210 dipendenti, ha aperto lo scorso dicembre il quarto stabilimento produttivo con la previsione di altre 100 assunzioni a regime – ma sta virando dal contoterzismo di disposable a business innovativi sempre più vocati al terapeutico. «Anche la narrazione che la ricerca e l’innovazione costanti sono un antidoto per il Made in Italy contro la concorrenza asiatica non regge, questo distretto dovrebbe andare a lezioni dai vicini di Sassuolo», ribadisce Forchielli, che in Cina e con la Cina ha lavorato decenni per poi chiudere i ponti «dopo 38 sgarbi subiti, li ho contati uno per uno, l’ultimo con la società di rating Dagong, e ho imparato sulla mia pelle che dei cinesi non ci si può fidare».

La lobby europea del distretto di Sassuolo

La lezione che i produttori di piastrelle sassolesi stanno impartendo a tutto il sistema manifatturiero italiano – il fondo MCP è presente anche nel distretto ceramico con il gruppo Italcer – è la coesione e la potenza di advocacy e lobby che riescono a esercitare sul legislatore nazionale e comunitario, in termini di normative, di certificazioni e di dazi (recentemente rinnovati per la terza volta contro la ceramica cinese, mentre sta montando la battaglia per arginare l’invasione di piastrelle indiane). Nella “tile valley” c’è una consapevolezza capillare nei cittadini che la tenuta industriale è essenziale per salvaguardare il loro benessere sociale, che finora è mancata 50 chilometri più a nord. Forse solo ora, in risposta agli scricchiolii delle multinazionali – esaurite le iniezioni di contributi pubblici, tra la ricostruzione post-sisma e gli incentivi per la R&S – inizia a scuotersi anche la “biomedical valley”. Dove si sconta però l’assenza di multinazionali familiari di media taglia, cresciute insieme nei decenni condividendo chiesa e piazza – l’ossatura di Sassuolo – capaci tanto di competere quanto di collaborare per salvaguardare quell’80% vitale di quota export.

«A Mirandola si producono prodotti nobili salvavita, non impasti di argilla, la richiesta di dazi per proteggersi dalla concorrenza sleale e salvaguardare le filiere locali è una questione strategica non solo per le imprese del distretto ma per l’intero sistema-Paese, l’esperienza del Covid dovrebbe avercelo insegnato», tuona Forchielli. Ulteriore ragione per cui va strutturata e istituzionalizzata una rappresentanza industriale e territoriale forte presso gli organi centrali, affinché non si ripetano più casi come l’iniqua norma del payback sui dispositivi biomedicali (su cui si aspetta il verdetto della Corte Costituzionale) o il regolamento europeo sui medical devices (MDR) che raddoppia tempi di certificazione, burocrazia e sanzioni mettendo in ginocchio la competitività europea. E il biomedicale di Mirandola è il più importante distretto in Europa, ma è rimasto in silenzio.

A Mirandola servono investimenti e infrastrutture

Il biomedicale sta diventando un tassello sempre più importante anche nell’approccio “One Health” (titolo, non a caso, anche dell’evento Biomedical Valley 2024) che Oms e amministrazioni occidentali stanno portando avanti nell’intento di salvaguardare salute e benessere di persone e pianeta attraverso prevenzione e diagnosi precoce, prima ancora della cura terapeutica. «I dispositivi medici hanno un ruolo cruciale in questa direzione, a differenza del farmaco hanno però tempi di obsolescenza molto più rapidi e servono quindi prezzi in grado di remunerare l’innovazione e tempi e regole di certificazione che non penalizzino il progresso tecnologico», sottolinea Francesco Saverio Mennini, capo dipartimento della Programmazione, dei dispositivi medici, del farmaco e delle politiche in favore del SSN del ministero della Salute (professore di Microeconomia ed Economia sanitaria dell’Università Tor Vergata). «Come si può pensare di attirare a Mirandola argonauti come scienziati e ricercatori, se non ci sono campus universitari, se non ci sono fondi di venture capital a stimolare l’innovazione e non ci sono infrastrutture veloci per raggiungere il distretto?», sono le domande provocatorie che Forchielli lascia in eredità all’Auditorium Rita Levi Montalcini, pieno di imprenditori, manager e ragazzi. Sulla realizzazione della Cispadana anche ieri gli organizzatori della Biomedical Valley hanno raccolto firme nel tentativo di sbloccare un’inerzia pubblica che va avanti da più di trent’anni. E sulla necessità di arricchire di servizi e intrattenimento il territorio stanno lavorando associazioni come WeCare, con volontari di 16 aziende del biomedicale che cercano di stimolare nuove iniziative per la comunità. Non basta, però, per arrivare come priorità sui tavoli di Roma e Bruxelles.

Fonte: Il Sole 24 Ore