Come potenziare l’italiano, in genere

Sono passati quasi novant’anni da quando Antonio Gramsci, già linguista e allievo di Matteo Bartoli a Torino, annotava nei Quaderni del carcere che «ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale». Stando alla vivacità dei dibattiti attuali, sembra che oggi il genere sia una delle principali articolazioni della “quistione” della lingua in Italia: di cosa si parla, dunque, quando si discute di lingua e genere, e qual è la relazione con una possibile riorganizzazione dei rapporti di potere?

Due sono al momento le aree calde del dibattito: l’uso dei femminili professionali e la sperimentazione di forme che puntano a superare la visione binaria del genere. Questi cambiamenti e le reazioni che provocano si legano alla dignità e visibilità (anche) linguistica di gruppi che, non appartenendo al genere egemonico, sono stati tradizionalmente marginalizzati, e rispondono quindi a una richiesta di diritti, dentro e fuori dalla lingua.

L’emersione del femminile come desinenza (e categoria) a sé stante, non più inclusa automaticamente nel maschile sovraesteso, ha un forte valore simbolico nel cammino dei diritti delle donne. Hanno mostrato in questo la via le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana di Alma Sabatini (studiosa e femminista, co-fondatrice e prima presidente del Movimento di Liberazione della Donna), redatte tra il 1986 e il 1987 su sollecitazione della Commissione Nazionale per la parità e le pari opportunità tra uomo e donna promossa dal Consiglio dei Ministri.

È qui che, tra vari suggerimenti per rendere meno sessisti gli usi della lingua italiana (che di per sé, si badi bene, non sarebbe sessista: lo è l’uso che se ne fa), si presentavano elenchi di femminili regolari anche se poco usati, come ingegnera o architetta, avvocata, magistrata, sindaca, e se ne raccomandava l’uso. L’ironia e lo scherno che accompagnarono allora queste proposte non ne hanno impedito la diffusione, pur se in tempi lunghi e con percorsi non lineari, in concomitanza all’ingresso delle donne in settori professionali che per lungo tempo erano stati loro preclusi – un fenomeno sociale e linguistico peraltro rilevato da Bruno Migliorini sin dagli anni 30 del Novecento, con grande anticipo rispetto agli studi di settore. Permane, comunque, una certa ostilità diffusa, residuo di una resistenza al cambiamento che pure sta perdendo ogni ragione d’essere.

I primi passi nell’ambito della messa in discussione del binarismo sono stati mossi in ambienti militanti, come nelle comunità LGBTQIA+, all’interno delle quali si cerca ormai da tempo di evitare il maschile per indicare gruppi misti o per riferirsi a persone non binarie, sperimentando con una varietà di desinenze alternative: la vocale -u, le consonanti -x, -y, -z, l’apostrofo, il trattino basso, simboli quali la chiocciola e lo schwa (ə). Regolarmente presentati come bislacche manovre per stravolgere la lingua italiana “a tavolino” o come imposizioni dall’alto da parte di piccoli gruppi, questi tentativi ci parlano in realtà delle ricerche di nuovi modi di vivere la lingua, sia per le donne sia per quelli che la filosofa Chiara Bottici, ampliando la definizione storica di Simone de Beauvoir, chiama i “secondi sessi”, per indicare tutte le persone che non si identificano come maschi cisgender (soggetti nei quali sesso biologico assegnato alla nascita e identità di genere coincidono) ed eterosessuali. Il discorso interessa soprattutto le generazioni più giovani, che dimostrano maggiore familiarità con il concetto di fluidità.

Fonte: Il Sole 24 Ore