Investire su risorse umane, competenze e spazi comunitari per il recupero dei giovani detenuti

La rieducazione dei giovani detenuti (che nel 2024, stando ai dati di associazione Antigone, hanno superato quota 500 e confermato l’allerta sovraffollamento anche negli istituti penali per minorenni) passa dalla collaborazione di adulti educati e consapevoli, dal valore della dimensione comunitaria e da percorsi formativi e professionali che li aiutino a riappropriarsi del futuro. È questo il leit motif che ha accomunato gli interventi della tavola rotonda che si è tenuta martedì 1° luglio a Palazzo Lombardia a Milano, Oltre le sbarre, la vera libertà, organizzata dalla Fondazione Asilo Mariuccia Milano e dalla Regione.

Puntare su comunità dinamiche e formazione scolastica

«È necessario che gli adulti vadano a scuola di relazioni». Chiaro e conciso l’invito di Don Gino Rigoldi, per oltre cinquant’anni cappellano dell’istituto penale per minorenni Beccaria che, ribadendo il valore dell’approccio umano nel percorso di accompagnamento dei ragazzi verso una nuova vita, ha messo sul tavolo due proposte ambiziose: pensare a un nuovo modello di comunità ed estendere l’articolo 21 anche alla formazione scolastica. «Le comunità, oggi, hanno sempre meno posti e sono destinate ad averne sempre meno perché, quando i ragazzi diventano maggiorenni, se non trovano una famiglia pronta ad accoglierli, tendono a rimanere lì», ha spiegato Don Rigoldi.
«Bisognerebbe, quindi, sviluppare anche in Italia quello che in Francia o in Spagna è il modello delle maisons des jeunes, comunità di 20 o 30 giovani di diversa appartenenza e origine, allegre, sorridenti e animate dalla cultura». Quanto, invece, alla seconda suggestione, ampliare la norma ed estenderla anche alla formazione scolastica potrebbe diventare una spinta importante al reinserimento in società. «Si potrebbero creare centri diurni ad hoc: di giorno escono a fare lezione, proprio come fa chi lavora e, una volta finito, ritornano in carcere – ha aggiunto -. Questo li farebbe diventare, in qualche modo, autonomi prima del rilascio e li integrerebbe negli spazi della società».

Nuovi modelli e più riconoscimenti agli educatori

Una visione a cui sembra allinearsi anche Don Claudio Burgio, cappellano in carica all’Istituto Beccaria. Che, nel tornare sul ruolo delle comunità di accoglienza, ha insistito sulla necessità di rinnovarne il modello, spesso anacronistico.
«Abbiamo a che fare con una generazione interrotta, che non riesce a declinarsi in una progettualità di vita – ha chiosato -. Occorre aggiornare i metodi, non possiamo usare quelli di trent’anni fa. E soprattutto aprirsi al confronto». Facendo leva, ad esempio, sulla musica. «Per provare a capire questi giovani e arginare l’emergenza educativa, può essere utile partire dai testi delle canzoni trap e rap che tanto ascoltano. La violenza dei testi non è giustificabile ma serve a poco censurarli, perché così non si annullano le logiche che li portano a imboccare percorsi deviati».
La figura dell’adulto ritorna, anche qui, in tutta la sua necessità. Soprattutto nei panni degli educatori, ormai sempre meno. Anche a causa di riconoscimenti economici scarni e poco equi, al netto delle difficoltà della professione. «Non servono solo persone preparate ma resilienti, capaci di umanità e in grado di crescere con i ragazzi, instaurando un rapporto che non sia solo normativo». Un profilo che, per Don Burgio, può ritrovarsi anche in molti detenuti in semilibertà, a cui bisognerebbe aprire le porte del sistema educativo carcerario. Anche senza un titolo accademico e valorizzandone l’esperienza personale e umana.

Il valore dell’educazione preventiva

Investire sugli spazi d’azione e sulle competenze di chi lavora a contatto con detenuti minorenni resta, sicuramente, una delle priorità con cui le istituzioni devono interfacciarsi. Ad esempio, pensando «a un piano europeo di risorse da utilizzare per formare il personale e potenziare l’impianto comunitario», come suggerito da Giulio Gallera, presidente della commissione speciale Pnrr della Regione Lombardia. Eppure, l’educazione preventiva non va sottovalutata. «La rieducazione è complessa se, a monte, non c’è l’educazione ma è un percorso che può portare, oltre a un’integrazione sociale e una potenziale riduzione della recidiva, anche a migliorare il rapporto con la famiglia – ha concluso Antonino La Lumia, presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano -. Intervenire prima del reato è fondamentale, soprattutto nell’era degli illeciti virtuali, che spesso non sono percepiti in tutta la loro gravità».
Una strada da percorrere, secondo Fabio Roia, presidente del Tribunale di Milano, «sensibilizzando i genitori a un controllo positivo», non demandando alla scuola oneri che per natura non le competono ed evitando di entrare in un circolo vizioso di delega «che rischia, inevitabilmente, di trasformarsi, in deresponsabilizzazione».

Fonte: Il Sole 24 Ore