Italia-Ue, cosa può succedere ora su conti pubblici e manovra

Se le regole del nuovo Patto di stabilità sono ormai definite, e prevedono come sancito dalla “traiettoria tecnica” inviata da Bruxelles lo scorso 21 giugno una correzione media nei sette anni di vigenza del piano pari a circa 12 miliardi (lo 0,6% del Pil), è evidente che come sempre la trattativa avverrà sul piano strettamente politico. E la strada, dopo la decisione degli europarlamentari di Fratelli d’Italia di votare contro la rielezione di Ursula von der Leyen a presidente della Commissione, si fa ora tutta in salita.

Quali margini per la prossima manovra?

Entro il 20 settembre il Governo dovrà presentare a Bruxelles il piano strutturale di bilancio in cui saranno indicate le cifre e le proiezioni per i conti pubblici, a partire dalla prossima manovra. A novembre la Commissione renderà note le sue raccomandazioni con annessa la richiesta di correzione a valere sul parametro di riferimento, rappresentato ora dalla spesa primaria netta. Vi rientra la spesa totale delle amministrazioni pubbliche al netto delle misure discrezionali in materia di entrata, della spesa per interessi, della componente ciclica della spesa per disoccupazione, della spesa per programmi interamente finanziati da fondi europei, della spesa nazionale per il co-finanziamento di programmi europei e di misure di bilancio “one off” e temporanee. L’apertura della procedura di infrazione per disavanzo eccessivo (il riferimento è il deficit del 7,4% del Pil registrato lo scorso anno) colloca il nostro Paese nel braccio correttivo del Patto di stabilità: pochi margini a disposizione, dunque per una manovra che oltre alla riduzione del deficit dovrà prevedere – lo ha confermato il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti – il finanziamento per 10,7 miliardi del taglio del cuneo contributivo per i redditi fino a 35mila euro. Vi andranno aggiunti 615 milioni per confermare il primo modulo della riforma Irpef (è la parte eccedente la quota già coperta dal Fondo per l’attuazione della delega fiscale). Andranno poi quantificati gli altri oneri che vengono di norma inseriti alla voce “politiche invariate” tra cui le risorse da destinare per il prossimo triennio contrattuale dei dipendenti pubblici (2025-27) e il rifinanziamento di alcuni fondi, inclusi alcuni destinati agli investimenti.

La trattativa politica

A gestire la partita sarà il nuovo Commissario agli Affari economici ma le interlocuzioni saranno avviate ai massimi livelli tra il Governo e la Commissione fin dal prossimo settembre. Le regole europee prevedono che si possa ottenere uno scontro per il triennio 2025-2027 in relazione alla maggiore spesa per interessi sostenuta per effetto dell’aumento dei tassi. In ballo c’è anche la richiesta, avanzata dallo stesso Giorgetti di scorporare i maggiori investimenti diretti alla difesa dal calcolo del deficit. Ma più in generale si tratta di impostare con la Commissione un dialogo costante, con l’obiettivo di ottenere margini di flessibilità anche ulteriori a beneficio dei conti pubblici. Con quali possibilità di successo? Il no di Fdi alla conferma di Ursula von der Leyen non potrà non pesare, anche se – lo ha sottolineato il capodelegazione di Fdi all’Eurocamera Carlo Fidanza – “questo non pregiudica il nostro rapporto di lavoro istituzionale che siamo certi possa portare alla definizione di un ruolo adeguato in seno alla prossima commissione che l’Italia merita”. Sulla stessa lunghezza d’onda Giorgia Meloni: “Non ho ragione di ritenere che la nostra scelta possa in alcun modo compromettere il ruolo che verrà riconosciuto all’Italia nella Commissione europea. L’Italia è un Paese fondatore, la seconda manifattura, la terza economia d’Europa, con uno dei governi più solidi tra le grandi democrazie europee. Ed è sulla base di questo, e solo di questo, che si definisce il peso italiano”. Ottenere un portafoglio “di peso” all’interno dell’esecutivo comunitario è l’obiettivo del Governo, ma il problema è che prima di tutto occorrerà recuperare terreno, e capacità negoziale sui dossier che più contano in Europa. Occorre saper costruire alleanze e compromessi, e certo non aiuta (dopo il no alla rielezione di Ursula von der Leyen) il persistente rifiuto da parte del Governo a ratificare la riforma del Mes. Vi è da chiedersi quale potrà essere l’atteggiamento delle capitali che contano in Europa quando si tratterà sul percorso di rientro dal deficit. Di certo pare preclusa in partenza l’arma del ricorso a nuovo indebitamento, come avvenuto per 15,7 miliardi per la manovra del 2024.

La partita delle riforme

Un focus particolare dovrà essere dedicato alle riforme e agli investimenti, condizione essenziale per ottenere l’allungamento da quattro a sette anni del piano strutturale che sarà presentato entro il 20 settembre. Lo sottolinea la Banca d’Italia nel focus sulla nuova governance economica europea contenuto nella Relazione annuale presentata lo scorso 31 maggio: occorre realizzare un pacchetto di riforme e investimenti “sufficientemente dettagliati, temporalmente definiti, verificabili e da realizzare in larga parte nella prima fase del Piano”. In più, le riforme dovranno essere in linea con le “raccomandazioni” rivolte dalla Commissione nel corso del cosiddetto “semestre europeo”. Le riforme e gli investimenti dovranno inoltre contribuire alle priorità comuni dell’Unione, tra cui le transizioni verde e digitale, la resilienza sociale ed economica, con particolare riferimento al Pilastro europeo dei diritti sociali, la sicurezza energetica e il rafforzamento della difesa europea. Anche da questo punto di vista un peso non secondario lo avrà la trattativa politica: quale atteggiamento avrà la Commissione e quale i partner europei nel caso in cui si evidenzino ritardi nella realizzazione del piano di riforme? E certo resta in salita anche l’altra richiesta avanzata da Giorgetti di prolungare il periodo di vigenza del Pnrr oltre il 2026. Resta ferma l’opposizione dei paesi più rigoristi all’emissione di nuovo debito in comune. Difficile immaginare un atteggiamento più indulgente nei confronti del nostro Paese che è il maggiore beneficiario del piano. Anche gli altri parametri potranno essere discussi ma con quali margini di successo? L’applicazione “letterale” delle nuove regole europee prevede che il disavanzo strutturale dovrà tendere a un valore non superiore all’1,5% del Pil attraverso miglioramenti del saldo primario strutturale di almeno 0,4 punti percentuali all’anno per un piano di aggiustamento di quattro anni e di 0,25 punti in caso di orizzonti più lunghi.

La strettoia del debito

La linea emersa nel corso dell’Eurogruppo del 15 luglio è che la conduzione dei conti pubblici dovrà essere ispirata a criteri “restrittivi”. Anche da questo punto di vista, e con esplicito riferimento alla riduzione del debito che secondo la Commissione europea raggiungerà nel 2025 il 141,7% del Pil (il Governo prevede il 138,9%) difficile attendersi sconti di sorta. Secondo Bruxelles l’obiettivo è portare il debito su un percorso di riduzione “plausibile” o che si attesti su livelli “prudenti” al di sotto del 60% del Pil nel medio termine. L’Italia continua a presentare squilibri macroeconomici eccessivi, e dunque il debito (che nel 2025 supererà in valore assoluto i 3mila miliardi) resta un osservato speciale.

Fonte: Il Sole 24 Ore