CIMA chiude, l’arte italiana non è più di moda

Se fosse solo il CIMA – Center for Italian Modern Art di New York ad annunciare la mesta chiusura rimbalzata sui principali giornali di settore, dal The ArtNewspaper al New York Times ad artnet fino ai vivaci web italiani, i conformisti potrebbero fare spallucce alla fondatrice Laura Mattioli, figlia del collezionista Gianni fingendo sia un’ereditiera rompiscatole. Ma negli Art Department delle università di Philadelphia e San Francisco molti professori e studenti sono sotto shock. Hanno chiuso loro le facoltà di arte e l’hanno saputo dai giornali locali.

Cosa sta succedendo negli States? «Fondi non pervenuti, problemi di budget dopo la pandemia nonostante donazioni e quote associative, per il fisco Usa deducibili sempre al 100%, siano normali anche per la classe media». Si sfoga la signora Mattioli: «Come CIMA abbiamo raggiunto il 24% di contributi esterni, ma in quanto Public Charity dobbiamo raggiungere il 30% con 12 diversi donors. Con un bilancio annuale di 1-1,2 milioni di dollari l’obiettivo era alla portata di un Centro di ricerca e promozione dell’ arte italiana del Novecento che, dal 2013, ha raggiunto rapidamente la notorietà internazionale. Con 13 mostre da Medardo Rosso a Fortunato Depero e Giorgio de Chirico, da Mimmo Rotella a Mario Schifano e Nanni Balestrini, che hanno portato il MoMA a tirare fuori dai depositi le opere italiane o a comprarle per completare collezioni pubbliche che ne erano sprovviste». Invece la Comunità italiana e quella italo-americana, che vanta imprenditori con sedi e redditi a stelle e strisce, sono rimaste a guardare. Mancava il rendimento immediato. Di fatto: «la crescita delle spese, le molte difficoltà tipiche delle mostre d’arte italiana dal combinato disposto di costosissimi prestiti museali e disincentivi al prestito dei privati, spaventati da notifiche e dogane occhiute, ci costringono ad abbandonare il nostro progetto. Malgrado sia stato studiato per la valenza innovativa, con borse di ricerca di 5-6 mesi a 25-30mila $ ciascuna, che danno luogo ad una programmazione originale e formativa. Con 2-3 curatori di formazione mista, italiani e statunitensi, da cui sono nate le esposizioni annuali. Non c’è nulla di simile, nemmeno le scholarship di Magazzino, collezione italiana di Cold Springs. Il nostro costo medio di una mostra è 200mila $, 100mila $ se di opere su carta. Ma l’attenzione non è più sulla qualità delle opere, ma sul contesto sociale dell’artista».

Ed ospitare il realismo sociale dei Divisionisti o la diaspora ebraica in fuga dalle persecuzioni razziali con Corrado Cagli è ormai lontano da un sentire americano che bolla come «retaggio colonialista ed imperialista l’istituzione museale in se stessa e l’arte occidentale ed europea in genere. Rivolgendo la sua attenzione alle arti di Sud America, Africa e delle donne, purché di minoranze e identità sin qui poco rappresentate». E l’ Italia colla sua cultura greco-romana confusa oltreoceano con schiavismo antico e passati sogni imperialistici in Africa, «diventa indifendibile» perché catalogata tra indecifrabili ruderi e sospetti di nazi-fascismo. E, nell’ arte contemporanea si incuneano tendenze che piallano la sensibilità verso l’arte. «Negli Usa nascono intelligenti pseudo-gallerie che vendono oggetti colorati, senza impegno, post pop, dai soggetti leggeri o un’arte che si riferisce al quotidiano, comprensibile a tutti. All’opposto di correnti cripto-critiche del contemporaneo di cui certe élites si piccano d’essere gli interpreti. Mancano candidati per le borse di studio perché i trend penalizzano le arti come concepite sin qui, come segnala l’associazione dedicata Association of Research Institutes in Art History».

Quindi meglio chiudere?
«Le difficoltà sono troppe. I 200-300mila $ di contributi esterni annuali venivano da 250 members, per la maggior parte con la sola quota associativa di base di 125 $, mentre alcuni donavano 500-1000 $. E due sostenitori fissi per 60mila e contributi per gli eventi di circa 20mila. Fiscalmente americani, alcuni di origine italiana. Circa 2/3 del budget erano per le spese fisse (affitto, manutenzione ordinaria, personale fisso -4 fissi e 4 collaboratori esterni) mentre solo 1/3 copriva il costo delle mostre, le borse di studio e gli eventi».

Dove sono il Ministero degli Esteri MAE e le istituzioni, anche bancarie? L’arte italiana rischia di “restare un episodio provinciale”, il Futurismo una copia fascista del cubo-futurismo russo e un fratello minore del Cubismo. O qualcuno può fare qualcosa?

Fonte: Il Sole 24 Ore