Privatizzazioni, tre miliardi per centrare il target 2024

La ripresa dopo la pausa estiva e la preparazione del Piano strutturale di bilancio impongono all’esecutivo una riflessione sulla prosecuzione del piano di privatizzazioni. Nella manovra dello scorso anno era stato indicato un obiettivo di dismissioni, a partire dal 2024, pari a 20 miliardi in tre anni (anche se in realtà la quantificazione è fissata all’1 per cento del Pil). Nella prossima manovra è probabile che il concetto sia in qualche modo ribadito. Un percorso proporzionale richiederebbe dismissioni di almeno 6 miliardi all’anno.

Nelle casse dello Stato già circa tre miliardi

Nonostante i dibattiti, le diverse posizioni espresse anche all’interno della maggioranza, le critiche delle opposizioni, l’esecutivo Meloni in realtà è già partito e quest’anno ha portato nelle casse dello Stato circa 3 miliardi di euro. Dunque, se si intenderà, come probabile, confermare la traiettoria per centrare l’obiettivo del 2024 servirà incassare prima della fine dell’anno circa 3 miliardi di euro o poco più. Un target assolutamente alla portata.

Le operazioni effettuate dal Mef

Sinora il ministero dell’Economia ha ceduto, con operazioni di accelerated bookbuilding, il 2,8 per cento del capitale di Eni, con un incasso di 1,4 miliardi. Tra novembre 2023 e marzo 2024 il Mef ha ceduto anche quote del capitale di Mps, totalizzando 1,5 miliardi. È vero che una quota era stata venduta alla fine dello scorso anno, ma il monte privatizzazioni può essere calcolato in quasi tre miliardi di euro.

Il dossier Poste Italiane

Se il governo volesse chiudere il 2024 raddoppiando il tesoretto, a portata di mano c’è la cessione delle seconda tranche di Poste Italiane, i cui lavori preparatori sono stati portati avanti sotto traccia dall’azienda per mesi. Fino alla primavera scorsa quando sono state avviate le interlocuzioni informali con la Consob (ci sarebbero stati almeno un paio di incontri) per definire la preparazione del prospetto informativo dell’Offerta pubblica di vendita, che prevede la vendita di una parte del capitale agli investitori istituzionali e un’altra quota a risparmiatori e dipendenti. L’avvio dell’operazione è stato immaginato e poi bloccato più volte. La possibilità di lanciare l’operazione entro giugno era stata accarezzata e poi accantonata per la concomitanza delle elezioni europee e il rischio che le opposizioni strumentalizzassero la privatizzazione in campagna elettorale. Anche i sindacati sono scesi sul piede di guerra: sono contrari alla vendita di altre quote; alcuni possono accettare che lo Stato ceda ma non scenda sotto il 50 per cento del capitale. Gli spazi per sfruttare la finestra di settembre-ottobre ci sono. I mercati sono positivi e il titolo Poste è al massimo storico. La capitalizzazione è arrivata a 16,5 miliardi, più del doppio del valore di Ipo. Nel Dpcm varato a gennaio, ma mai approvato si prevede che lo Stato non debba scendere sotto il 35% del capitale, il che significa che può cedere fino al 29% lasciando il 35% in mano a Cdp. L’incasso potenziale sarebbe di quasi 5 miliardi. Il Mef, però, potrebbe anche vendere solo una prima tranche del 15%, tale da mantenere il controllo pubblico al 50%, e portare a casa circa 2,5 miliardi, una cifra sufficiente ad avvicinarsi ai 6 miliardi del target di quest’anno, rinviando magari una tranche successiva a future operazioni.

Capitolo Mps

Tra le altre operazioni a portata di mano ci sarebbe la vendita di un’altra quota di Mps, nel quale lo Stato controlla il 26%, avendo preso l’impegno con Bruxelles di andare almeno sotto al 20% entro fine anno. La scelta non è però facile; una cessione tout court porterebbe lo Stato a una quota bassa, che esporrebbe la banca al rischio di Opa da parte di concorrenti. Secondo i rumors, si starebbe studiando un’alleanza commerciale sul comparto assicurativo in modo tale da far entrare nel capitale il partner (le indiscrezioni avevano parlato di Unipol). Ma sembrano scenari ancora prematuri.

Fonte: Il Sole 24 Ore