Moda, tute blu, edilizia, logistica alla prova del rinnovo del contratto in autunno
Tessile, abbigliamento e moda, metalmeccanica, logistica, edilizia. La fine dell’estate coinciderà con la ripresa dei negoziati di alcuni dei contratti collettivi nazionali di lavoro dell’industria più importanti per numero di addetti. Il tessile, che dopo il recente accordo dei calzaturieri, chiuderebbe i rinnovi della galassia moda, sono in fase avanzata ma le parti (Smi e Filctem, Femca e Uiltec) non sono ancora entrate nel dettaglio dell’aumento di 270 euro chiesto dai sindacati per i 370mila addetti. Nel caso dell’industria metalmeccanica (1,5 milioni di lavoratori), la richiesta economica di 280 euro, fatta dai sindacati (Fiom, Fim e Uilm) a Federmeccanica e Assistal, per il periodo 2024-2027, sta portando il negoziato su una ripida salita, dopo l’aumento dell’ultimo rinnovo (2021-2024) che è stato trascinato a quasi 311 euro dalla fiammata inflattiva e dall’adeguamento ex post. Da poco sono partite anche le trattative della logistica dove vengono chiesti aumenti del 18% (pari a circa 300 euro) e dell’edilizia dove la richiesta è di 275 euro. Entrambi i contratti interessano circa un milione di addetti. Restano invece ancora aperti i negoziati del rinnovo dell’ospedalità privata (Aiop e Aris, quello dei non medici è scaduto nel 2018, quello dei medici nel 2023), dell’industria turistica (Federturismo, Confindustria Alberghi), scaduto nel 2018, e di Federterme, scaduto nel 2022. Così come è aperto il rinnovo del contratto delle telecomunicazioni (Asstel) che riguarda più di 200mila persone ed è scaduto a fine 2022. A fine anno arriverà a scadenza il contratto multiservizi (Anip) che riguarda quasi un milione di persone e aveva previsto una tranche di aumento nel 2025. Si tratta di un contratto dal perimetro ampio che in questo rinnovo potrebbe vedere la possibile inclusione della ristorazione collettiva che fa capo ad Anir e Angem, dopo che nel rinnovo si sono sganciate da Fipe Confcommercio. Nell’ambito dei servizi, per molteplici ragioni, c’è un’evidente attrazione verso il mondo confindustriale. Un allargamento dei perimetri contrattuali in diversi ambiti, soprattutto nei servizi, consentirebbe un avanzamento significativo anche sul welfare contrattuale.
Le tempistiche dei rinnovi
Le statistiche, da quelle Ocse all’Istat ci dicono che i salari dei lavoratori dipendenti stanno crescendo. Non sempre e non tutti allo stesso modo, però, complice anche la tempistica dei rinnovi contrattuali. Facendo riferimento al dato Istat, il tempo medio di attesa di rinnovo a giugno 2024 era pari a 27,3 mesi, due anni e tre mesi, quindi, in calo di due mesi dai 29,2 di giugno 2023, soprattutto per effetto dei rinnovi del terziario, scaduti da quasi cinque anni. Il modello contrattuale va ripensato? Secondo Tiziana Bocchi, segretaria confederale della Uil, «indubbiamente sì. È evidente – afferma la sindacalista – che ci sono settori che non rispettano le tempistiche. E non è un tema marginale che riguarda nicchie o pochi lavoratori. Pensiamo al commercio che ha sì rinnovato i contratti, ma non possiamo dimenticare dopo quanti anni. Come anche l’artigianato. È chiaro che quando si rinnovano i contratti dopo molti anni dalla loro scadenza, con in mezzo un biennio in cui c’è stata l’inflazione più alta dagli anni ’90, la perdita di potere di acquisto c’è e resta perché la massa salariale non viene recuperata. Per questo il salario sicuramente resta centrale, pur essendoci molta attenzione anche al welfare e alle competenze». Il ritardo nei rinnovi non aiuta il recupero del potere di acquisto dei lavoratori e fa emergere un quadro generale falsato.
La puntualità dell’industria
L’industria appare più puntuale nei rinnovi. Se prendiamo i dati dei lavoratori dipendenti a cui viene applicato uno dei contratti di lavoro del sistema Confindustria, emerge che sono 5,8 milioni. A fine luglio, 1,85 milioni, quindi il 32%, uno su tre, aveva un contratto di lavoro in vigore. Per 730mila di questi il contratto scadrà entro fine 2024. Sono invece 3,2 milioni (il 55% del totale) i lavoratori interessati da contratti scaduti da poco, ma non oltre i 12 mesi. Nel complesso, quasi il 90 per cento dei lavoratori ha un contratto che si rinnova in tempi fisiologici. I ritardi più lunghi, superiori a 24 mesi, interessano meno di 600mila lavoratori, il 10,3% del totale. Completando il quadro con i dati Istat che considerano l’intera economia, alla fine di giugno, i 41 contratti collettivi nazionali in vigore per la parte economica riguardano il 64% dei dipendenti, quindi circa 8,4 milioni. I contratti che sono in attesa di rinnovo risultano 34 e coinvolgono circa 4,7 milioni di dipendenti, (36% del totale).
La crescita dei salari
«Sicuramente nell’industria, nei negoziati ci sono state discussioni, ma poi alla fine la quadra la si è trovata, quasi sempre in tempi ragionevoli. Veniamo da 4 anni in cui i contratti sono stati rinnovati nel rispetto delle regole – interpreta il Direttore dell’area lavoro, welfare e capitale umano di Confindustria, Pierangelo Albini -. Se prendiamo gli studi di comparazione, l’industria manufatturiera ha avuto risultati positivi negli ultimi 20 anni e ha fatto aumentare i salari del 20%. Si tratta di valutazioni contenute anche negli studi Ocse». La conferma di questa tendenza arriva anche dagli ultimi dati Istat, secondo cui l’incremento retributivo più sostenuto è nel comparto industriale. Nei servizi, a fare da traino è stato il credito dopo l’aumento record di 435 euro. Nella Pa la crescita retributiva è in rallentamento.
L’andamento medio piatto
Nel nostro Paese, però, in media, i salari hanno un andamento piatto. «È un dato oggettivo – continua Albini – ma solo considerando la media generale dell’intera massa delle retribuzioni del lavoro dipendente, dall’industria, all’agricoltura, al commercio, all’artigianato, al pubblico impiego. Se si va a vedere lo spaccato, però, emerge altro. L’industria manifatturiera italiana negli ultimi 20 anni ha riconosciuto aumenti retributivi in linea con Spagna, Germania e Francia, nonostante la produttività sia stata la metà di quella di questi Paesi». Quindi perché la crescita dei salari sembra piatta? È l’effetto della media generale in cui entrano il pubblico impiego che rinnova i contratti tre anni dopo la loro scadenza e quando arriva al rinnovo è già in scadenza il contratto successivo, ma anche di settori come l’artigianato o il commercio e i pubblici esercizi del commercio: in quest’ultimo caso parliamo di 5,6 milioni di lavoratori che hanno avuto ritardi significativi nei rinnovi e quindi salari fermi fino a 5 anni.
Fonte: Il Sole 24 Ore