Nel silenzio sospeso della guerra

C’è una generazione di registi italiani tra i quaranta e i cinquant’anni che offre uno sguardo, pur rivolgendosi al passato, contemporaneo, differente, originale e universale. L’Alice Rohrwacher de La chimera, il Roberto Minervinide I dannati e la Maura Delpero di Vermiglio, che ha vinto il Gran premio della Giuria alla Mostra del cinema di Venezia e che è ora nelle sale. In queste pellicole, pur molto diverse tra di loro per ambientazione, epoche e contesti, si cerca un principio di adesione alla Natura, di ritorno a un’ingenuità primitiva, non per questo priva di crudeltà. Rohrwacher con il suo folletto rabdomante di tesori archeologici nella Toscana degli anni Ottanta, Minervini con l’idiozia della guerra di Secessione americana, Delpero in un paesino montano di poche anime nella Val di Sole, in Trentino, deprivato delle forze maschili di padri e fratelli, inviati al fronte durante la Seconda guerra mondiale.

Se la Nouvelle Vague italiana degli anni Sessanta – i Pugni in tasca (1965) di Bellocchio su tutti – distruggeva la famiglia borghese, gli anni Settanta con Ultimo tango a Parigi (1972) di Bertolucci e Salò e le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pasolini annientavano il concetto di “morale e costume”, Palombella rossa di Moretti nel 1989 annunciava la fine dei partiti, ora che le grandi istituzioni con cui abbiamo convissuto dal Dopoguerra sono abbattute – le chiese e gli oratori vuoti, le grandi ideologie fallite, il lavoro non più identitario per le nuove generazioni – ci si rifugia in un mondo predigitale, tutt’altro che edulcorato e felice, ma vicino all’orologio biologico e delle stagioni. Così, questi registi scavano attorno alle radici dell’umanità, non più bella, più paritaria, meno insidiosa e iniqua di quella di oggi. Le macchine esistevano e portavano anche allora morte, ma non vi era il logorio lento e quotidiano della nevrosi digitale.

Vermiglio si svolge in una specie di liquido amniotico e ci dice che l’uomo rimane lo stesso, soggetto a pregiudizi e razzismi, che cambiano di aspetto ma non di sostanza. Ma ci suggerisce anche che il contatto con la Natura, pur capace di sferrare fendenti, porta armonia. Le traversie della comunità di Vermiglio sollevano ricordi familiari ancestrali, comuni da Nord a Sud, di un mondo contadino cui possiamo facilmente risalire nella linea ascendente. L’uso del dialetto, a tratti incomprensibile, non è una barriera, perché Vermiglio è un film corporale. Il numero dei componenti della famiglia protagonista si indovina da quante tazze passano sotto il mestolo che distribuisce il latte per la colazione. L’amore per gli animali è espresso nell’abbandono grato della testa della mungitrice sul ventre della mucca. La diffidenza e il razzismo verso lo straniero è raccontato con un bicchiere di vino negato. La sessualità adolescenziale vissuta con colpa è figurata in un nascondimento vergognoso dietro l’anta di un armadio.

Quella che vediamo è una comunità fatta di donne, bambini e vecchi nel tempo sospeso della guerra, che non ha traccia evidente del conflitto se non nell’assenza dei maschi in età di leva, nella penuria di cibo e nella povertà dignitosa. E soprattutto nel futuro oltremodo incerto affidato a quelli che sono gli esseri più “fragili”, su cui si forma un nuovo equilibrio di dolcezze e sensibilità, ma dove continua a regnare il patriarcato. Morti e parti si snocciolano nel freddo con la stessa indifferenza di sempre, nessuno sparo e nessuna bomba fuori, ma il grande vuoto di sapersi esclusi dalla Storia.

La malinconia, la nostalgia si fanno profondi, spessi di neve, di pareti umide, di maglioni di lana grezzi, di vallate scavate a picco tra i muraglioni delle montagne. Una piuma passata sulla pelle, come se fosse una magia, è un segreto quasi quanto le confidenze sussurrate nel letto mentre la luce del giorno si affievolisce. È un’intimità, soprattutto quella femminile costretta, che Delpero conosce già da Maternal (2019), dove a Buenos Aires racconta i rapporti che si intrecciano in una casa famiglia tra ragazze madri e le suore che le gestiscono. La maternità, trattata come un fatto della vita, a volte scomodo, è il punto di svolta anche in Vermiglio. In Maternal è una condanna fisica per le ragazze, che le suore possono solo teorizzare. In Vermiglio è felicità e sfinimento, ma anche il lascito di un inganno che forse non voleva essere tale. È il segno tangibile del matrimonio tra Lucia (Martina Scrinzi) e Pietro (Giuseppe De Domenico), un disertore siciliano. Finita la guerra, finisce anche l’illusione della sospensione del tempo. La realtà irrompe cruda: Ada (Rachele Potrich), che voleva studiare, accetta le conseguenze della decisione del padre Cesare (Tommaso Ragno), maestro del paese, che la ritiene non in grado di eccellere. Lucia porta addosso vergogna e disonore e con lei la sua famiglia.

Fonte: Il Sole 24 Ore