La leadership cambia, ma il ceo smart worker non lo vedremo

«La leadership cambia, ma il ceo o il presidente smart worker non lo vedremo. Nei colloqui percepiamo la maggiore attenzione dei manager al valore del tempo e anche la diversa sensibilità che hanno a quello dei loro collaboratori, ma la tensione al risultato resta identica». L’amministratore delegato di Key2People, Cristina Calabrese, parla dall’osservatorio della principale società italiana di cacciatori di teste e consulenza sulle risorse umane (attività in crescita e che rappresenta circa il 35% del business) che ha chiuso l’ultimo bilancio con oltre 21 milioni di euro di fatturato. «Gestiamo circa 200 ricerche di top manager all’anno per aziende private e partecipate: dal 2018 siamo accreditati come advisor del Ministero dell’economia e della finanza nel processo di nomina di componenti del board delle società partecipate. Contiamo di chiudere il 2024 con un aumento del giro d’affari dell’8%, accompagnato dall’espansione internazionale, con l’apertura di una sede a Dubai», ci spiega. Siamo sul terrazzo molto riservato della sede che offre silenzio e una poetica vista sui tetti della Milano a pochi passi da piazzetta Belgioioso, prima dell’inizio di una giornata piena di appuntamenti per la manager, come succede sempre alla ripresa di settembre. La temperatura tiepida ci traghetta verso l’autunno, quasi a rappresentare simbolicamente il tema dei temi della leadership: le transizioni. «Viviamo tempi di grandi discontinuità – ragiona Calabrese -. Sul piano economico e geopolitico, così come su quello ambientale e tecnologico. Questo sta creando discontinuità anche nella leadership. Le caratteristiche manageriali adatte a questa fase sono decisamente più legate alla gestione del cambiamento continuo e alla reattività, che non alla pianificazione. Le aziende si muovono in una logica di ecosistema con aperture verso mondi diversi, da quello accademico a quello delle start up e anche questo impatta sulla leadership che deve essere più aperta e attenta agli stakeholder esterni: non più solo ai dipendenti e agli azionisti quindi, ma anche al territorio e alle comunità. L’attaccamento del leader alla comunità, in senso ampio, può essere un elemento strategico per il successo dell’impresa».

Il ricambio generazionale e le successioni, in questo contesto, sono molto più sfidanti. Non tutte e non sempre rispondono alle aspettative di creazione di valore, per le quali gli azionisti non sono disposti a lunghe attese, come raccontano alcune storie italiane e non di queste ultime settimane. «L’attenzione al risultato e alla creazione di valore è centrale per le aziende e per i loro leader. Certamente ci sono sensibilità nuove rispetto ad alcuni temi come la flessibilità e il tempo, dovute alle diverse generazioni che devono convivere in azienda, ognuna delle quali è portatrice di valore. Questo ha portato a una nuova modalità di gestione delle gerarchie. La comunicazione oggi è più orizzontale, diffusa, non c’è più un canale top down ed emerge invece sempre più l’importanza di canali di ascolto dei dipendenti. C’è sempre meno un rapporto fisico e di controllo e sempre più un orientamento verso la delega, l’assegnazione di obiettivi e la loro misurazione», continua Calabrese.

Le ricerche in questo ultimo anno hanno visto una certa vivacità nei settori infrastrutture, energia e industria, sotto la spinta dei trend di innovazione e sostenibilità. Se guardiamo alle competenze, «tra i professionisti più ricercati rientrano il Chief innovation officer (Cio), così come il Chief artificial intelligence officer (Caio) che non sono affatto figure puramente tecniche, ma figure ibride di manager che devono avere competenze tecnologiche ma anche organizzative e di processo e affiancare i top manager in una trasformazione che è sempre più pervasiva. Lo stesso vale anche per un’altra figura che è quella del sustainability manager che è molto trasversale ed è di supporto tanto sui temi più culturali che sui veri e propri processi di produzione. Chi guida le aziende oggi non può non avere sensibilità sia sulle nuove tecnologie che sull’impatto ambientale e sociale perché sono il mercato e i clienti a chiederlo».

Se la creazione di valore sembra essere sempre più complicata, il contributo legato a una leadership più giovane che sia più vicina all’innovazione, all’internazionalizzazione e ai nuovi trend, «potrebbe tradursi in un valore compreso tra l’1% e il 2% del PIL italiano, ossia tra 20 e 40 miliardi, come è emerso da una ricerca che abbiamo fatto nei mesi scorsi con Bain & company – ricorda Calabrese -. Ad un alto mix generazionale nelle posizioni apicali, come i dati evidenziano, corrisponde una maggior capacità di creazione di valore e crescita: ciò dimostra che la chiave per la gestione del futuro è una combinazione tra esperienza, innovazione e discontinuità, eppure solo il 53% delle aziende adotta policy a favore di una leadership intergenerazionale. Il Paese ha un serbatoio di competenze molto forte nei manager quarantenni che può essere un acceleratore di crescita, investendo costantemente in piani di successione e di valorizzazione del talento, come alcuni esempi di concreto successo testimoniano». La realtà però dice un’altra cosa. Dalla ricerca emerge infatti che nel nostro Paese, l’età media dei Ceo di società quotate si attesta sui 60 anni e sta ulteriormente invecchiando, rispetto ai 55-58 anni che si registrano tra i vertici di realtà quotate di altri Paesi europei. Anche per quanto riguarda prime linee e board si assiste alla stessa tendenza: il nostro Paese ha tra i 2 e i 5 anni di “maggiore età” rispetto alla media europea.

Fonte: Il Sole 24 Ore