Così l’inflazione ha tagliato il debito. Ma anche i redditi degli italiani

I numeri diffusi lunedì 23 settembre dall’Istat con la revisione delle stime di contabilità nazionale hanno acceso una girandola di commenti. Era prevedibile, perché 97,4 miliardi di Pil in più fra 2021 e 2023 e un debito ridisceso alla fine dello scorso anno ai livelli pre-Covid (134,6% del prodotto) che invece avrebbe dovuto raggiungere solo alla fine del 2030 rappresentano dati eccezionali. Altrettanto prevedibile era l’inclinazione ideologica del dibattito, che a sinistra e soprattutto dalle parti del Movimento 5 Stelle ha individuato nelle cifre dell’Istat la prova di una spinta miracolosa del Superbonus mentre nel centrodestra si è concentrato sui «risultati del nostro buon governo». Entrambe le letture trascurano alcuni aspetti essenziali, legati per esempio al fatto che il debito da Superbonus si manifesta soprattutto nel 2024-2027, quindi fuori dall’arco temporale riesaminato dall’Istat, mentre la crescita aggiunta dai nuovi calcoli parte dal riconteggio del 2021, quando il Governo Meloni non c’era (e in pratica non c’era nemmeno il Superbonus, che allora muoveva i suoi primi, faticosi passi prima della semplificazione introdotta in autunno dal Governo Draghi). Le due interpretazioni, soprattutto, dimenticano la protagonista assoluta degli anni riesaminati dall’Istituto di statistica: l’inflazione. È lei ad aver azionato le forbici più potenti sul rapporto fra debito e Pil. Ma anche, per un effetto collaterale evidente, sui redditi degli italiani.

Il taglio del debito

Sul terreno delle buone notizie, l’azione della corsa dei prezzi sulla salute dei conti pubblici diventa evidente incrociando pochi dati. La crescita reale cumulata dall’Italia fra 2021 e 2023 è del 14,82%. È un tasso imponente, che nel 2021 e 2022 con il super-rimbalzo post pandemico ha fatto dimenticare gli abituali ritmi italiani tornati a farsi sentire nel 2023 (anno di picco della spesa da Superbonus, per inciso) con il modesto +0,7%. Nello stesso periodo, il debito in valore assoluto è cresciuto “solo” dell’11,24%, anche grazie all’effetto post-datato del Superbonus che ha evitato un altro 5-6% di crescita. In assenza di inflazione, insomma, il debito si sarebbe attestato alla fine del 2023 al 149,3% del Pil. Ma i saldi di finanza pubblica si calcolano in rapporto al prodotto nominale, e lì l’inflazione si sente eccome. A misurarla è il deflatore del Pil, altro dato riprodotto dalle nuove tabelle dell’Istat: fra 2021 e 2023 il deflatore cumula 15 punti percentuali, tanto è vero che nel periodo la crescita del prodotto interno nominale vola al 27,35%. E spiega il ritorno del debito/Pil nei dintorni di dov’era stato lasciato prima del crollo pandemico

Il taglio dei redditi

I prezzi in salita fanno bene ai conti pubblici ma danneggiano quelli privati. Anche questo effetto è noto, ma le tabelle dell’Istituto di statistica aiutano a inquadrarlo meglio. Quando si guarda alle retribuzioni lorde, infatti, i livelli pre-pandemici restano lontani. In termini nominali, la retribuzione pro capite è arrivata alla fine dello scorso anno 11,2 punti percentuali sopra il dato del 2019. Ma anche qui interviene un deflatore. Il più significativo per misurare il potere d’acquisto è quello relativo alla «spesa delle famiglie residenti», che negli ultimi cinque anni ha sommato 15,4 punti percentuali. Il peso reale delle retribuzioni, quindi, a fine 2023 si è fermato 3,64 punti sotto il livello del 2019. In media: perché ovviamente c’è chi ha pagato un pegno maggiore, essendo titolare di redditi «fissi» molto più dei prezzi. Ma questa è un’altra storia.

Fonte: Il Sole 24 Ore