Fondate sull’acqua e perfette macchine narrative

Devo a una lezione di Carlo Ossola la consapevolezza dell’esistenza dell’espressione greca hudatorizon. Si tratta di un misterioso frammento di Parmenide (XVa); e che sia un frammento (anzi, probabilmente un hapax) del fondatore della scienza e dell’epistemologia, per me, assume un significato particolare, forse una rivincita. Ma non basta: il frammento, secondo gli esegeti più fini, significherebbe qualcosa come “radicato nell’acqua”; «fondato sull’acqua». Dentro questa parola, dunque – che ci viene dritta da una civiltà d’acqua (e chi non lo è stata, del resto, nel Mediterraneo, culla eterna della nostra cultura) – si accumulano una serie di suggestioni: tanto più che quel frammento non è riferito, solo a “un’isola”, come potrebbe in effetti essere, ma proprio alla Terra (in opposizione alla Luna) in quanto tale: anzi, sarebbe la Terra, nel suo intero, nient’altro che un’enorme “isola” per l’appunto radicata sulle acque.

Madre acqua, più madre terra: questa è la percezione naturale di chi è isolano: la certezza che la geografia è allo stesso tempo, una possibilità, una condanna e una ricchezza. Ma poiché sono triplamente isolano (sardo, nato da due genitori appartenenti a due piccole isole diverse di un arcipelago dell’isola madre), abituato a convivere con la finitudine della terraferma, la vastità del mare e l’incommensurabile differenza tra due sistemi che si integrano, epperò si dividono (dove anche si uniscono, d’altra parte), la dimensione del significato, della metafora, del fantastico portato esistenziale che l’isola conduce con sé, da tempo mi fa ragionare e appassionare a questi temi. E li rende urgenti, anche se, ovviamente, non ultimabili: mai avremo ragione di confini e lacerti, di passaggi e ostruzioni, di profondità e leggerezza che l’essere isola, il comprendere l’isola, comporta. È una tradizione che va avanti da secoli e ancora andrà, perché le isole sono formidabili generatori di storie e macchine narrative autoportanti: raccontano la loro unicità e la loro divergenza, e non dimenticano mai il loro statuto ontologico. Che si applica, però, significativamente, al resto: “isola” è parola tanto piena di senso che si presta a tutto: sono isole, certamente, gli uomini (ma «nessun uomo è un’isola» ci insegna Donne»), sono isole i continenti, e sono isole, persino, talvolta, anche le stesse isole. Anche se non è mai detto.

Un’estate come questa appena passata insieme ai vari tipi di isole e ai vari tipi di racconto che esse suscitano, è stata proprio la sfida – o solo la ennesima dimostrazione – che l’argomento è affrontabile in molti modi, e nessuno di questi è giusto o sbagliato a priori, come evidenziano (e ringrazio tutti i collaboratori e tutti i colleghi che si sono cimentati con la prova) gli articoli che abbiamo ospitato in questi tre mesi e che oggi qui si concludono.

Ma se c’è una chiave che a me persuade più di tutti (e riassume gli altri) è, ancora una volta, il taglio che all’argomento aveva dato un maestro di pensiero come Bruno Munari. Da lontano era un’isola (1971, le cui immagini adornano questa pagina; l’unica, volutamente, di quelle sul tema, priva delle magnifiche illustrazioni di un artista come Anna Godeassi) resta un capolavoro.

Perché assume come caratteristica fondante per capire il mondo (cioè, l’isola!) la presenza ineludibile dell’immaginazione: a partire dalla copertina (che rivela che quell’oggetto da lontanto è un’isola, ma da vicino è altro; e viceversa) e dentro ogni singola pagina. Qui, Munari, raccogliendo “semplici” sassi, mettendoli in fila, descrivendoli e affibbiando loro significati, compie quel gesto magico e sciamanico che spetta alla letteratura, alla cultura. Dare senso, ritrovare significati, proiettare l’umano in ciò che non lo è e anche compiere il percorso nell’altro senso. Quando, qualche anno fa, alla Galleria Corraini di Milano vidi in una raccolta gli “originali” dei sassi usati poi da Munari nel volume (da lui dipinti non so quanto per gioco e per finire in un libro: non diceva così già Mallarmé?) fu un’emozione. Era la stessa trasmutazione della materia che, da vile e comune, semplici pietre, appunto, si faceva veicolo di racconto e immaginazione. Un’alchimia, una pietra filosofale che chiunque abbia provato a pensare a come funziona la poesia delle cose non potrà che condividere. Perché tutti, alla fine, siamo come “fondati sull’acqua”, una materia sdrucciola e fluida, instabile e ingannevole, ma primigenia e vitale. Sogni e racconti, pietre e mare, isole e terre: un eterno ritorno che richiama la nostra comune umanità.

Fonte: Il Sole 24 Ore