Il rider che ripete il suo calvario pedalando

Se esiste ancora un cinema neorealista europeo, La storia di Souleymane di Boris Lojkine vi rientra appieno. Il film, realizzato con un budget irrisorio, vincitore del premio Fipresci, della giuria e del migliore attore nella sezione Un certain regard di Cannes, sarebbe potuto stare bene nel concorso principale a scalare il palmares per la sua capacità di raccontare il tempo di oggi, senza infingimenti e morale, quanto lo hanno fatto i fratelli Dardenne con Rosetta (1999) e L’Enfant-Una storia d’amore (2005), premiati con l’oro.

La Storia inizia lenta addosso al protagonista Souleymane (Abou Sangare), inizialmente negli uffici parigini dove si esamina la sua richiesta di asilo come perseguitato politico dal governo guineiano per il suo attivismo da leader sindacalista di opposizione. Souleymane ripete il suo calvario mentre pedala come rider in “affitto” dal vero detentore dell’account, che esige quasi la metà del fatturato. Lo seguiamo da una consegna all’altra, vorticosamente, avvertendo il suo sforzo fisico, la volontà di spremere ogni residuo di energia. Siamo con lui mentre, esasperato, reagisce a un ristoratore che lo fa aspettare troppo e quando fa a piedi sette piani e aiuta un anziano ad aprire il cartone della pizza. Ha solo 48 ore per imparare la sua “storia”, prima dell’“audizione”: cerca disperatamente il suo connazionale Barry (Alpha Oumar Sow), che “prepara” dietro corrispettivo chi gli chiede aiuto. Mentre aspetta di essere ricevuto, Souleymane sente Barry forzare una ragazza a raccontare lo stupro da parte del marito “legittimo”, appoggiato dal padre di lei. La ragazza fatica, ma Barry le spiega che proprio per queste “storie” la Commissione per i rifugiati è più sensibile. Souleymane ascolta, china la testa e si commuove. Perché è questo il punto di questa bellissima Storia: i motivi per cui si migra sono molti e tutti legittimi. L’umanità, le specie sono sempre migrate, spiega con un approccio scientifico il bello spettacolo musicale e teatrale, Nomadic, di Telmo Pievani e e Gianni Maroccolo. Gli umani fuggono dalla guerra, dalla persecuzione politica, dalla fame, dall’ignoranza e dalla superstizione, in cerca di un futuro migliore o per istinto.

Il primo lungometraggio di Lojkine, Hope (2014), seguiva un camerunese e una nigeriana mentre cercano di raggiungere l’Europa. Ora il regista guarda al “dopo” con un’altra vicenda. Ha voluto una troupe leggerissima (dalle tre alle cinque persone), attori non professionisti, ha girato le scene su strada da una bicicletta, facendo lui stesso il fonico, non ha fermato mai il traffico, le luci sono naturali per una Parigi di un sans papier, fatta di dormitori e pasti gratuiti (ingranaggio perfetto ma implacabile), dove il pericolo sono i poliziotti, gli immigrati sfruttatori e la nostalgia di casa. La sceneggiatura (del regista e di Delphine Agut) è sempre in equilibrio: anche agli europei è riservato lo stesso guardo, assieme spietato e umano, con un finale indimenticabile.


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Fonte: Il Sole 24 Ore