Dall’autonomia alla legge sulla cittadinanza, qual è la posta in gioco dietro l’elezione del giudice costituzionale

Nell’emiciclo di Montecitorio ieri è andata in scena l’ottava fumata nera sull’elezione del giudice mancante della Corte Costituzionale (che oggi lavora con 14 giudici rispetto ai 15 previsti). La premier Giorgia Meloni avrebbe voluto chiudere su Francesco Saverio Marini, consigliere giuridico di Palazzo Chigi nonché “padre” della riforma del premierato, ma il muro delle opposizioni – unite nel non partecipare al voto – e i numeri risicati per il via libera, alla fine, hanno suggerito la prudenza della scheda bianca per non “bruciare” il nome di Marini. Per il quorum, infatti, sarebbero servite 363 preferenze (tre quinti dei parlamentari) ovvero, al netto di assenti e possibili franchi tiratori, diverse in più rispetto ai numeri della maggioranza. Intanto, il tempo stringe: la casella da riempire è quella dell’ex presidente della Consulta, Silvana Sciarra, il cui mandato è terminato quasi un anno fa. Non solo. A metà dicembre scadranno altri tre giudici portando la Consulta alla soglia minima di 11 componenti.

La posta in palio

Ma qual è la posta in palio dietro l’elezione del giudice mancante e in prospettiva degli altri giudici in scadenza della Consulta? La partita legata al nome di Marini va chiusa per il centrodestra prima del 12 novembre, giorno in cui la Consulta è chiamata a decidere sul ricorso in via diretta delle regioni di centrosinistra contro la legge Calderoli sull’Autonomia differenziata. Ma soprattutto a gennaio i giudici della Corte Costituzionale saranno chiamati a valutare l’ammissibilità di quesiti referendari sui quali l’opposizione (ad eccezione di quelli sul Jobs act) si è compattata. Sono sette i referendum che hanno superato le 500mila firme previste dalle legge. Due contro l’autonomia differenziata, uno sulla legge sulla cittadinanza (dimezati da 10 a 5 gli anni di residenza in Italia richiesti agli stranieri maggiorenni che chiedono la cittadinanza), quattro per cancellare la riforma del Jobs act, o quel che ne resta. Ora attendono il parere della Corte costituzionale sull’ammissibilità. Il “responso” è previsto per la metà di gennaio 2025.

Le accuse dell’opposizione

Le opposizioni accusano il centrodestra di aver tentato il “blitz” prima di questi appuntamenti decisivi, spostando “a destra” gli equilibri della Corte. La Costituzione prevede che i cinque (su 15 totali) giudici di nomina parlamentare della Consulta siano eletti con voto segreto dalle Camera in seduta comune. E’ richiesta la maggioranza dei due terzi nei primi tre scrutini (403 voti sul totale dei 605 tra deputati e senatori in carica al momento) e di tre quinti dei componenti a partire dal quarto scrutinio (363 voti). Sono state fissate soglie alte affinché la nomina non sia appannaggio esclusivo della maggioranza. E per spingere a un’intesa bipartisan per una carica all’interno di un’organo che ha una funzione di garanzia costituzionale.

Verso un’intesa bipartisan

Nei decenni è invalsa la prassi di riservare la designazione dei cinque giudici ai partiti in base ai rapporti di forza in Parlamento. Dopo il fallito blitz di ieri non sembra esserci spazio per forzature. E per uscire dall’impasse la strada sembra proprio quella dell’accordo bipartisan. E’ probabile infatti che a questo punto si attenderà che scadano altri tre giudici entro la fine dell’anno (lo stesso presidente Augusto Barbera, Franco Modugno e Giulio Prosperetti) per trattare tutto il “pacchetto”: uno a Fratelli d’Italia, uno a Forza Italia, uno alla Lega e uno alle opposizioni, che a loro volta però insisteranno per chiederne due

Fonte: Il Sole 24 Ore