Il rossetto ai maiali e il capitale reputazionale

I maiali sono animali molto intelligenti, ma hanno una pessima reputazione che li rende oggetto di numerose espressioni proverbiali. La mia preferita in inglese “put a lipstick on a pig” mettere il rossetto a un maiale. L’etimologia risale al Cinquecento e significa abbellire qualcosa in superficie, mentre la vera sostanza resta poco attraente e, in questo caso, maleodorante.

Cito sempre una delle mie aziende “preferite”, l’indimenticabile Enron. Quali erano i valori indicati nella sua missione? L’avete indovinato: Integrità, rispetto ed eccellenza. Mettetevi comodi e godetevi la frase che segue. Sotto il titolo “Rispetto” la pagina web recitava “Trattiamo gli altri come vorremmo essere trattati noi”. Immagino che abbiano speso una fortuna in rossetti, fino al momento in cui il resto del mondo e i suoi 29.000 dipendenti non scoprirono la verità. Bancarotta e dirigenti in prigione. Pensioni scomparse, frodi.

La reputazione di un’azienda è di vitale importanza: negli anni 70 in capitale di una azienda erano i beni “tangibili” come macchinari, fabbriche, terreni. Ora il 70% del capitale è rappresentato dagli intangible assets, vale a dire la reputazione del brand. La stessa cosa vale per la reputazione personale. Secondo la mia esperienza, prima o poi gli scheletri nell’armadio diventano visibili a tutti.

Qualche tempo fa, ho ascoltato una delle migliori e più divertenti presentazioni a cui mi sia mai capitato di assistere. Il relatore ha selezionato dieci profili di dieci persone diverse da quattro differenti piattaforme: LinkedIn, Facebook, TikTok e Tinder. Ha iniziato con LinkedIn. Primi profili: impeccabili, forse con troppi termini in voga per descrivere lavori e responsabilità. Il relatore ha chiesto al pubblico composto da circa cinquecento professionisti delle risorse umane: Li assumereste?. La risposta è stata assolutamente positiva. Poi ha mostrato le medesime persone su Facebook e TikTok. Vi lascio immaginare. Ecco l’austero banchiere d’investimento che vince la scommessa di bere cinque pinte di birra in tre minuti. Il grigio commercialista che canta Freddie Mercury in mutande. L’insegnante insieme a un gruppo paramilitare con simpatie naziste. Ops! Il divertimento si stava trasformando in imbarazzo. Il pubblico ha iniziato a sentirsi a disagio. La parte migliore, ha dichiarato il relatore, era controllare i profili su Tinder: alcune foto non lasciavamo molto spazio all’immaginazione. A quel punto il relatore è tornato ai profili di LinkedIn e ha chiesto: Li assumereste ancora? Sicuramente immaginate la risposta. Nel giro di cinque minuti aveva fatto cambiare idea ai presenti. Il relatore ha avuto qualche problema di natura legale perché ha distrutto la reputazione di alcuni individui. Ha sicuramente sbagliato a farlo, ma la presentazione ha sollevato una questione.

La presenza sui social media rimane il modo più semplice e rapido per verificare la reputazione di qualcuno, nessuna azienda prende le referenze come una volta. Quello che finisce online resta online, a prescindere. Conosco diverse persone la cui carriera è stata distrutta od ostacolata da un istante di follia. Evitare una reputazione negativa diventa quindi di vitale importanza. Ma la cosa migliore è crearsene una positiva. Fate qualcosa per altre persone senza aspettarvi niente in cambio: date una mano a chi sta passando un momento difficile, chiamate un collega che ha perso il lavoro e presentatelo a un amico o introducetelo a un’altra azienda. Aiutate, siate disponibili e offrite un caffè a chi ha bisogno di parlare, fate qualcosa di inaspettato, restate in contatto, oppure inviate un articolo o un libro.

Fonte: Il Sole 24 Ore