perché l’elemento umano rimane fondamentale”

Nel mondo dei big data e dell’intelligenza artificiale si comincia a pensare che una serie di processi aziendali possano essere più o meno completamente “disumanizzati”, anche quelli che tradizionalmente presentano una forte connotazione “umana”. Pensiamo al processo di selezione. Davvero ha ancora senso organizzare dei colloqui di selezione? Non può essere un algoritmo a condurre il colloquio e a suggerirci qual è il candidato giusto?

Per rispondere bisogna porsi un’altra domanda: cos’è il colloquio di selezione? Se pensiamo che il colloquio sia essenzialmente un dialogo per verificare i requisiti di un candidato e permetterci di fare il “match” tra persona e requisiti allora non è meglio delegare questo compito alla tecnologia che lo può fare molto meglio di noi? In fondo non c’è bisogno di un manager in carne e ossa per porre delle domande. Lo può fare benissimo un “virtual recruiter” ben addestrato. E non c’è bisogno di un manager neanche per elaborare le risposte. Gli algoritmi di job “matching” possono infatti capire meglio di noi se c’è il “match” tra candidato e requisiti richiesti. Spulciano i dati e senza farsi condizionare da tutti i nostri bias e pregiudizi ci dicono se il candidato è quello giusto, con una possibilità di errore molto più contenuta di quella che avrebbe un essere umano.

E’ la fine del colloquio “umano”? Sì se interpretiamo la “job interview” come mera verifica di requisiti. Ma se ampliamo il discorso ci rendiamo conto che il colloquio di lavoro non potrà mai essere gestito dalla tecnologia, a patto di essere condotto nel modo giusto e per le finalità giuste. Provo a spiegare perché.

Noi assumiamo requisiti o assumiamo persone? Vogliamo una sommatoria di competenze o una bella persona che sposi i nostri progetti e la nostra visione? Vogliamo qualcuno che svolga delle mansioni o un partner che non ci tradisca nel momento del bisogno? La risposta è scontata. Noi non vogliamo capire soltanto se la persona con cui collaboreremo sa usare un software ma anche che cosa fa la domenica pomeriggio, qual è il suo “mondo nascosto”, che rapporto ha con le sorelle e con i vicini di casa. Ma se è così, perché i nostri colloqui di lavoro continuano ad essere una banalissima serie di banalissime domande? Perché continuiamo a chiedere “dove si vede tra dieci anni?” e non chiediamo mai “che rapporto ha con le sue sorelle”?

Siamo prigionieri di un rituale di verifica requisiti quando invece ciò che ci interessa è conoscere una persona così come faremmo in treno con uno sconosciuto. Questo atteggiamento ha degli effetti molto concreti: se devo verificare requisiti ti pongo le classiche domande. Se invece voglio conoscere una persona non ho domande preconfezionate “da questionario”, ma ho uno stile conversativo perché voglio appagare una curiosità esistenziale e quindi arrivo anche a domande del tipo “Come gestisci la malinconia delle domeniche pomeriggio?”.

Fonte: Il Sole 24 Ore