Han Khang o quel che resta del trauma

Come una grande massa oscura, il trauma devia e fa orbitare attorno a sé le vite delle persone e le comunità. Non si cancella con la morte di chi l’ha subìto, ma si riverbera in chi gli è stato vicino, allungando i suoi tentacoli attraverso le generazioni. Sebbene oggi lo si nomini in continuazione, resta opaco. Per sua natura il trauma si nasconde. Lo stupro in primis, il crimine perfetto, che chiude chi l’ha vissuto nel silenzio, ma anche gli altri traumi troppo grossi, o troppo ripetuti, o troppo accettati socialmente perché si riescano a rendere intelligibili a coloro che ne sono stati vittime e a coloro che ne sono stati risparmiati, anche se si ritrovano immersi nelle conseguenze. Dai grandi traumi planetari degli ultimi secoli, dalla colonizzazione alla tratta degli schiavi, dalle trincee della Prima guerra mondiale all’Olocausto, dalla violenza della società sulle donne e sui più deboli, a quelli regionali, nazionali, fino alla scala individuale, alcune delle scrittrici e alcuni degli scrittori più brillanti della nostra epoca ne hanno fatto il centro del loro lavoro. L’interesse si è spostato dall’indagine su chi i crimini li ha commessi, anche su chi li ha subiti. Sulle conseguenze sulle vittime e sul perpetuarsi degli effetti nelle società attraverso la storia, per arrivare all’ereditarietà del trauma e della violenza.

È proprio questo il fulcro del lavoro di Han Khang, l’autrice sudcoreana cui giovedì scorso è stato assegnato il Nobel per la letteratura. E lo è fin dal primo suo libro che possiamo leggere in italiano, che inizia così: «Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante» (La vegetariana, 2007, Adelphi 2016, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra). È la storia di Yeong-hye, moglie rispettosa e figlia ubbidiente che un giorno sogna una foresta scura e, dentro di questa, una baracca piena di carne appesa grondante sangue. Risvegliatasi, rifiuta di mangiare, cucinare e servire carne. L’improvvisa e impassibile ostinazione della donna genera nei familiari reazioni sempre più violente rivelando alla sorella, solo nel momento più estremo, come la loro infanzia fosse stata un susseguirsi di piccoli ma ripetuti abusi che lentamente ma inesorabilmente avevano cambiato la forma di chi li subiva, lo spazio che occupava nel mondo, la sua traiettoria. Un padre violento, un marito indifferente, dunque violento, una cultura sopraffattoria che non le ha dato le parole per esprimere quel che subiva, ma unicamente per nasconderlo. Solo gli incubi riescono a dare la loro enigmatica forma a ciò che Yeong-hye sente, mentre il rifiuto della violenza si traduce progressivamente in una rinuncia quasi giainista a vivere attivamente, anche solo a nutrirsi di qualcosa che non sia acqua e sole.

«Quell’inspiegabile serenità lo atterrì: gli fece nascere il sospetto che si trattasse solo di un’impressione, quel che era rimasto in superficie dopo che un’enorme quantità di inenarrabile violenza era stata assimilata, o si era depositata dentro di lei come un sedimento», osserva il cognato di Yeong-hye, divenuto artista dopo essere sopravvissuto al massacro di Gwangju. È l’unico che in qualche modo riesce ad avvicinarsi a lei, non senza danneggiarla, còlto com’è da un’ossessione artistica ed erotica per il suo corpo sempre più deprivato di desiderio.

Gwangju è la città dove Khang è nata nel 1970 e che ha lasciato a 9 anni, quando si è trasferita a Seoul con la famiglia (il padre era un noto scrittore), pochi mesi prima che l’esercito uccidesse centinaia di studenti e civili durante le proteste contro il regime autoritario di Chun Doo-Hwan. La carneficina, che nella Vegetariana è appena nominata, è invece centrale in Atti umani (2014, Adelphi 2017). Racconto collettivo di vivi e di morti di una strage che Khang affronta con la consueta imperturbabilità, lo stile succinto ed epurato di ogni passione, con il suo candore inquietante. Un eccidio e il riflesso che questo ha avuto sulla società è anche il fulcro del romanzo We Do Not Part, del 2021, che sarà pubblicato ai primi di novembre da Adelphi con il titolo Non dico addio. La storia si svolge all’ombra dello sterminio avvenuto alla fine degli anni 40 sull’isola sudcoreana di Jeju, dove decine di migliaia di persone, tra cui bambini e anziani, furono fucilati perché sospettati di essere comunisti. Un’onirica discesa agli inferi, nella storia di una famiglia, dove la frontiera tra visibile e invisibile sembra svanire. Non svanisce, ma invece persiste, la violenza. Traumi ripetuti sono all’origine anche del mutismo della protagonista di L’ora di greco (2011, Adelphi 2023), che aggrappandosi alla radicale estraneità della lingua di Platone spera di riappropriarsi della propria voce. Così come il tentativo di superare un lutto mai veramente esperito, quello per una sorella morta prima che lei nascesse, due ore dopo aver visto la luce, dà forma a The white book (2017), non ancora tradotto. Il più autobiografico di tutti i suoi romanzi, per ammissione stessa dell’autrice. Un’elegia per una persona che non ha mai vissuto, che la narratrice non ha mai conosciuto. Una meditazione su un trauma che non si annida nella sua memoria, ma in quella altrui. Che in lei esiste, anche se non ha forma.

Fonte: Il Sole 24 Ore