Nell’isola chiamata carcere, approdo dei naufraghi di vita

Se è vero – per dirla con John Donne – che «nessun uomo è un’isola», per comprendere davvero le voci di un carcere bisogna ascoltare anche quelle che restano fuori. Come in certe sere alle Mantellate a Roma o intorno a via Filangieri a Milano, quando il vento ripete nomi di mariti, figli, fratelli – quasi solo uomini – scanditi a squarciagola da donne che fanno giungere così il proprio abbraccio al di là di blindo e cancelli.

La vicinanza delle famiglie è determinante nel percorso dei detenuti: lo sanno bene gli operatori penitenziari, lo sa bene chi, come Daria Bignardi, da anni fa dono del suo tempo ai reclusi della casa circondariale di Milano. Un legame diventato ora un libro, che è un diario di navigazione e uno zibaldone di storie, tra volti incontrati o cercati. Tra prigioni e isole. Tra San Vittore, in prevalenza, e Linosa. Perché Ogni prigione è un’isola (Mondadori, 168 pag, 18.50 euro), recita il titolo del volume che non è un’inchiesta né un saggio, non ambisce a spiegare la complessità, ma si sviluppa lungo un percorso personale in compagnia degli abitanti di un carcere e di un’isola.

Negli anni, alcuni scogli sono diventati penitenziari, tra i più duri. Come l’Asinara e Pianosa, con le celle di massima sicurezza per i boss stragisti. O, con un balzo indietro, come il panopticon di Santo Stefano, difronte a Ventotene, dove fu imprigionato il futuro presidente della Repubblica, Sandro Pertini, come pure Luigi Settembrini. «Viviamo – annotava nelle Lettere dall’ergastolo – ad arbitrio de’ venti, del mare e de’ marinai». Una frase scelta da Bignardi ad esergo del libro, in cui il lettore, nell’incontro con i reclusi, ritrova specchiati i mali non risolti del mondo di fuori. Ecco perché «di carcere non vuole parlare nessuno», premette l’autrice, che entra nel rituale di cancelli, parlatoi e “domandine” con lo sforzo di sfrondare ogni frase dal troppo e dal vano. E’ la vita del carcere che le interessa, fatta «di dolore, ingiustizia, povertà, amore, malattia, morte, amicizia, rimpianto di una felicità e desiderio di libertà». Ma anche fatta di colloqui, ancora più autentici dentro di fuori, perché contingentati; di tormenti e di tentativi di riparazione, «perché i prigionieri si sentono in colpa rispetto ai parenti – scrive l’autrice – e ne parlano continuamente».

Le storie (l’ex ergastolano divenuto imprenditore che dà lavoro ad altri detenuti; l’ex della banda di Vallanzasca con la testa non «più calda ma disperata per gli anni di vita persi»; il fratello di una vittima della rivolta di Modena con il suo dolore e i suoi interrogativi; gli ex della lotta armata) sono costellate di riflessioni, che non possono che provenire da “una Settantotto”, come si chiama in gergo chi ha il permesso di entrare in carcere «allo scopo di partecipare all’opera rivolta al sostegno morale dei detenuti e degli internati, e al futuro reinserimento nella vita sociale». Bignardi lo fa nel reparto La Nave di San Vittore per tossicodipendenti, tra corsi di scrittura, articoli di giornale e un coro, possibili grazie alla generosità dei volontari. Anche per questo, ogni carcere è diverso da un altro. Perché ogni carcere è anche il territorio che lo circonda. Oltre che luogo di comunità in cui «se sta male il carcerato sta male anche la guardia», riflette un ex detenuto, convinto che «gli stessi che hanno picchiato a Santa Maria Capua Vetere a Bollate non lo avrebbero fatto». Come più raramente torna a delinquere chi, nell’istituto alle porte di Milano, ha avuto accesso ad un’occasione professionale, come dimostrato da una ricerca sulla recidiva. 

Da anni però, «le prigioni sono tornate a vestire l’abito degli ospedali generali di un tempo», ammette il direttore dei servizi penitenziari di Parigi in un’audizione citata da Bignardi. Aubergedes pauvres, ricovero per ogni categoria di emarginati. In Francia, come in Italia. Il carcere quindi isola distante, spazio separato dalla società dei liberi, ma talora addirittura approdo.

Fonte: Il Sole 24 Ore