Le mani sulla città di Donald Trump

Sono le movenze della bocca a colpire, quel modo inconscio di risucchiare le labbra per prendere tempo e concentrarsi, mentre gli occhi si stringono a fessura. L’eccezionale Trump di Sebastian Stan (miglior attore alla Berlinale per A different man, già in Tonya e interprete del mondo Marvel) si atteggia così già da giovane, quando è ancora un “apprendista”, in attesa di trasformarsi nel consumato politico che vediamo battersi con Kamala Harris, ora in discesa nei sondaggi.

Si chiama The apprentice. Alle origini di Trump il film con cui Ali Abbasi racconta i primi passi di un uomo d’affari che si appresta a sconvolgere il mercato immobiliare della New York degli anni ’70 per trasformare in un polo di lusso una Manhattan tarmata dalla criminalità. È un biopic The apprentice, ma è soprattutto un ragionamento sulla democrazia nella democrazia con il check and balance più invidiabile e funzionante, perfino quando un presidente non rieletto (Trump) non accetta i risultati e incita i suoi a riprendersi il potere (Capitol Hill). In fondo, è stato proprio il suo vice, il repubblicano Mike Pence, ad approvare la richiesta di invio della Guardia Nazionale per opporsi ai rivoltosi. Di democrazia, o della sua assenza, qualcosa Abbasi ne sa, essendo nato in Iran e non potendo più tornarci dopo aver girato Holy spider del 2022, ispirato alla storia vera di un killer seriale iraniano che di notte usciva per ammazzare le prostitute nel silenzio delle indagini. Un’analisi sulla necrosi che un regime infligge al proprio popolo, uccidendo il comando primario verso libertà e giustizia. Abbasi mostra però anche le contraddizioni degli States, Paese che non ha conosciuto la dittatura, ma in cui corruzione e intimidazione si insinuano nel liberalismo sfrenato, permettendo a figure come quella dell’avvocato Roy Cohn, detto Il serpente, di inquinare i pozzi, accumulando crediti dai poteri forti, dopo aver ottenuto le condanne per spionaggio contro Julius ed Ethel Rosenberg e aver investigato sui sospetti comunisti per conto del senatore McCarthy. Il faccendiere Cohn, interpretato da un notevolissimo Jeremy Strong, si assume l’incarico di fare da “maestro” al giovane e ambizioso Donald, perché ne vede la stoffa spregiudicata di battitore libero in cerca di consenso. Gli insegna tre regole fondamentali 1) Attacca. Attacca. Attacca2) Non ammettere niente. Negare ogni cosa3) Dichiarare vittoria e non ammettere mai la sconfitta (quest’ultimo precetto l’ottimo allievo l’ha portato fino agli estremi).

Donald capisce che non tutto quello che gli insegna Cohn è lecito: è in fondo un ragazzo cresciuto in una famiglia borghese, figlio “d’arte” in affari, nonostante si proclami un self made man, con una morale un po’ bigotta, che gli dona un alone di ingenuità primitiva e alcuni principi granitici, per esempio, rimanere sempre astemio. Spesso, quando Roy gli insegna come ottenere i risultati con l’inganno e l’intimidazione, risucchia le labbra, ma poi supera qualsiasi esitazione: vuole il via libera per ottenere un successo spudorato, il resto è rimozione degli ostacoli. Paradossalmente gli aspetti mondani (Andy Warhol compreso) e sexy-sensuali (Ivana Trump è Maria Bakalova) sono i meno interessanti nella seducente fotografia da videotape e nella filologia dei costumi Seventies. Il regista osserva Trump senza manicheismi, come un animale con una sua umanità (anche Cohn ce l’ha), che man mano viene divorata dall’identità agognata, quella del magnate miliardario. Lo dipinge quasi come un “chiamato” a una vocazione conservatrice, God bless America, davanti cui non (r)esiste alcun codice etico. In direzione opposta, ma per questo simile, Abbasi aveva girato nel 2018 uno sconvolgente sci-fi, Border, su una creatura, impiegata alla dogana, infallibile nel trovare delinquenti semplicemente annusando l’illecito.

A scrivere The apprentice è stato Gabriel Sherman, giornalista politico, esperto di destra americana. Sherman aveva intervistato Trump fin dagli inizi della sua carriera ed è nata da lui l’idea di illuminare il tycoon attraverso il rapporto con quello che fu il suo avvocato personale dal 1973 al 1985, individuando tra le tattiche vincenti apprese, quella della manipolazione della stampa, del “fare notizia” come modo per acquisire potere. Il film ha fatto fatica a trovare produttori (ed è nato grazie a una campagna di fundraising) e distributori in America, dove è nelle sale dall’11 ottobre. Per ora ha incassato poco, ma forse le dichiarazioni dello stesso Trump sulla pellicola «Un film falso e privo di classe. Un colpo basso, diffamatorio, politicamente disgustoso», potrebbero rianimare il botteghino.

Fonte: Il Sole 24 Ore