Dal cemento alle vette, tra strade e sapori dell’Himachal Pradesh

Ancora storditi dal caos irrimediabile di traffico, gente, odori e frastuoni che t’investe appena posi piede nelle strade di Bombay – i locali amano chiamare Mumbai ancora così – approdare a Chandrigarh è davvero spiazzante. Usciti dalla metropoli epitome dell’indianità alla volta delle valli himalayane, la prima tappa è in questa città, costruita a tavolino per volere di Jawaharlal Nehru, che la pensava razionale e modernista, in forte discontinuità con il passato coloniale. Per dar vita al proprio sogno il primo ministro dell’Indipendenza chiamò un gran nome dell’architettura mondiale, Le Corbusier, che qui ebbe modo di esprimere la sua idea di città ideale. E quindi chi si avventura per le strade di Chandrigarh vive un’India irriconoscibile: la città è divisa in 56 settori, ciascuno progettato come un micro-quartiere autonomo con scuole, negozi e spazi per il tempo libero, collegato agli altri da ampi boulevard alberati. L’impronta razionalista è resa anche dagli imponenti palazzi in stile brutalista. Qui il cemento è protagonista assoluto e la mancanza di colore – tranne in pochi casi – è accecante. Ma l’insieme è davvero intrigante, anche perché ci si trova nel luogo al mondo con la maggior concentrazione di opere del celebre architetto.

I 56 distretti della città

Dalle ampie strade di Chandrigarh inizia un’avventura automobistica che porterà, in un numero indefinito di ore, alle pendici delle montagne. Ci si inerpica verso le prime vette dell’Himachal Pradesh, alla volta di Shimla, la sorprendente capitale dello Stato. Dopo aver rischiato la vita un certo numero di volte grazie a sorpassi che definire azzardati è puro eufemismo e con le orecchie assordate dall’incessante suono dei clacson – tutti i camion montano cartelli che incitano alla cacofonia, «please horn» – si approda a un piccolo angolo di paradiso. Shimla è un grumo di passato coloniale immerso nelle pinete, da cui si domina una sequenza interminabile di valli verdissime. Questa capitale montana è a 2.200 metri di altitudine e fu la residenza estiva dei Raj britannici. Dell’impero mantiene un certo stile e diverse reminiscenze architettoniche. Sulla grande piazza chiamata The Ridge, da cui si gode il panorama più spettacolare, una storica libreria in stile Tudor fronteggia Christ Church, la seconda chiesa cattolica più antica dell’India, e su entrambe vigila la venerata statua di Gandhi. La zona più caratteristica è il lungo, sinuoso bazar, solo pedonale, dove si alternano negozi di artigianato, piccoli caffè, banchetti di bric à brac, sale da tè e minuscoli forni a cielo aperto. Piccole scimmie saltellano tutto intorno, non sempre amichevoli, ma neppure temibili. Imperdibile e suggestiva la puja, cerimonia di offertorio che si svolge al tramonto nel tempio dedicato alla dea Kali, protettrice della città. Così come una scarrozzata sul Toy Train, patrimonio Unesco, il treno che collega Shimla a Kalka in un viaggio di 96 km da coprire in sei ore, su binari larghi solo 70 centimetri.

La cucina himalayana di Naar

Ancora più arroccata sui monti, a oltre 2.600 metri, la scenografica Manali da decenni attrae invece chi cerca l’anima più spirituale dell’India. La città vecchia è stata nel tempo un ritrovo hippie, tappa imprescindibile del “viaggio”, dove rinfrancarsi davanti a una tazza di chai (il tipico tè al latte) e arrotolare una cartina di charas… Oggi è anche meta degli sportivi, che raggiungono la città dai tetti multicolori a un passo dal Ladak per praticare parapendio, rafting e scalate. Curva dopo curva, avvolti da boschi di larici e pinete, si raggiunge alla fine Amaya, boutique hotel eco-chic con quindici dimore sparse nel parco di otto ettari. Tutto intorno solo foreste e poco più in là il minuscolo villaggio Darwa. Questo il luogo scelto da uno dei più talentuosi cuochi del Paese per aprire un raffinato piccolo ristorante di alta cucina in cui esprimere la vera essenza degli ingredienti himalayani. Dopo importanti esperienze all’estero e vasti riconoscimenti per la sua cucina al Masque di Mumbai, Prateek Sadhu ha deciso di seguire il cuore, che lo spingeva a tornare alle montagne delle sue origini. Non solo una scelta sentimentale, però. Il progetto di Naar – questo il nome del ristorante, che significa “fuoco” – ha solide radici etiche e culinarie. Il proposito, come spiega lo chef, è quello di «tradurre nel piatto l’essenza delle montagne». Mettere in risalto la cucina himalayana con approccio «giocoso e rispettoso», dare voce a un territorio e alla sua gente. Alla tavola di Naar – solo 20 coperti con vista sull’Himalaya a ogni angolo – vanno in scena tutti i diversi sapori della più grande catena montuosa del mondo. Ingredienti unici e strettamente stagionali, che esprimono al meglio la fluidità del clima, con un menu che cambia ogni due mesi. Frutta e verdura vengono coltivati sul posto, il foraging si estende su tutta la fascia himalayana. Materia prima che evolve secondo le antiche tecniche di fermentazione, affumicatura, essiccazione, salamoia e trova piena espressione sulle braci.

Fonte: Il Sole 24 Ore