Le nostre scrittrici anglofone ignorate

Americani per gli italiani, molti discendenti dei migranti che lasciarono lo stivale per cercare fortuna – o sopravvivere – in America, si definiscono italiani. Noi per loro, infatti, siamo gli «italiani italiani», racconta Annie Rachele Lanzillotto, che è nata nel Bronx: «Non abbiamo mai diviso con un trattino il senso di noi stessi, abbiamo solo raddoppiato l’autenticità dei nostri cugini. Eravamo interi così, non compositi, anche se eravamo americani». È una delle scrittrici i cui racconti compongono E c’erano gerani rossi dappertutto. Voci femminili della diaspora italiana in Nord America a cura di Valentina Di Cesare e Michela Valmori, il primo volume del progetto Strade Dorate – Osservatorio di Letteratura e cultura della diaspora italiana e italofona, cofondato da Ilaria Serra ed Emanuele Pettener.

Molte di queste autrici sono note negli Usa o in Canada, dove vivono, ma in Italia sono tutte pressoché sconosciute. La letteratura originata dalla nostra migrazione, in particolar modo quella femminile, è stata da noi sminuita, trascurata, di fatto completamente ignorata dal grande pubblico, che pare sempre voler dimenticare questa parte forse considerata ingloriosa della sua storia. Un po’ meno dall’accademia, dove agli studi di Francesco Durante, autore della prima storia antologica completa di letteratura italoamericana (Italoamericana, 2001-2005), si sono aggiunti quelli di Margherita Ganeri, Maddalena Tirabassi, Martino Marazzi (autore, tra l’altro, del recente Through the Periscope. Changing culture, Italian America, 2022) e Caterina Romeo.

«L’Italia è sempre stata il posto in cui tutti i miei sensi si amplificano. Sembra quasi ci sia un diapason gigante sul suo suolo e il mio cervello si sintonizzi immediatamente su un altro livello, che è sempre stato lì, a vibrare nel luogo in cui la mente va subito prima di dormire, quel punto dolce in cui nascono romanzi interi e perfetti», scrive Marianne Leone. Come lei, tutte le autrici del volume, discendenti di seconda, terza, quarta generazione di migranti italiani, conservano consciamente o inconsciamente un forte senso di appartenenza. Arrivata in Italia per la prima volta, per esempio, Mary Saracino avverte un’indiscutibile familiarità: «Nei negozi e nei caffè. Agli angoli delle strade e nelle gelaterie, le persone che vedevo mi ricordavano me stessa, mia madre e mio padre, le mie sorelle e i miei fratelli, le zie e gli zii».

Quasi tutte loro, però, hanno perso la lingua – che molti non hanno insegnato ai figli, sperando di proteggerli dal disprezzo e dal razzismo -, o che è rimasta sotto forma di monconi di vocaboli dialettali metamorfizzati dal passaparola di generazione in generazione, ormai incomprensibili a chi non fa parte della famiglia, come ricostruisce bene Maria Laurino in Parole. Hanno perso dunque una parte fondamentale della loro cultura, e si trovano intrappolati in una nostalgia delle radici tanto potente quanto afona. In uno stato di transizione perenne tra terra d’origine e di approdo. Che oltretutto, tristemente, li respingono entrambe.

Capita, andando a zonzo nelle Little Italy di alcune città del Nord America, di trovarsi in una specie di varco spazio-temporale. Si vede, ad esempio, un bar chiamato «Azzurri», il font démodé, la grande insegna sbiadita, e ci si trova proiettati negli anni 60 e 70: la tenda di fili di perline di plastica sulla porta, e dentro, nella foschia, uomini con la coppola, maglioni con lo scollo a V a righe dai colori autunnali, i completi con panciotto di velluto a costine marrone. Così accade nei racconti di questo volume, perché le autrici hanno conservato nel ricordo, o nei ricordi acquisiti dagli antenati, un’Italia che non c’è più, dove «c’erano gerani rossi dappertutto», tozzi, resistenti, con le loro esuberanti esplosioni di rosso, la «forza color del sangue», come quella delle donne e degli uomini coriacei che attraversarono l’oceano. Un’Italia che la nostalgia ha riempito di senso, e che noi possiamo ritrovare, e a volte scoprire, leggendone i testi emozionanti e «sempre indiscutibilmente onesti», come osservano Serra e Pettener.

Fonte: Il Sole 24 Ore