Cotone, ecco perché la fibra naturale più diffusa non è ancora la più sostenibile

È la seconda fibra più diffusa sul pianeta dopo il poliestere, la prima delle naturali. Eppure, anche se è generato dalla terra, il cotone non è la fibra più sostenibile. Lo dimostra un recente studio pubblicato dalla ong statunitense The Organic Center, che ha preso in esame l’impatto ambientale della produzione di cotone, con un’attenzione particolare agli Stati Uniti, evidenziando che solo il cotone organico può definirsi una fibra davvero sostenibile, poiché quello ordinario, che costituisce ancora la stragrande maggioranza, è afflitto da un uso intensivo di pesticidi e fertilizzanti che rendono la sua filiera produttiva un rischio per l’ambiente e per la salute.

Il cotone, si legge nel report, è la coltura più diffusa al mondo, in oltre 50 Paesi, grazie alla vastità delle sue applicazioni, che vanno dall’industria tessile a quella alimentare. I primi cinque Paesi per estensione della produzione sono India, Stati Uniti, Cina, Pakistan e Brasile. Fra 2018 e 2022, per il cotone è stato usato il 4% dei pesticidi usati per l’agricoltura in tutto il mondo, e negli Stati Uniti, unico Paese produttore a monitorarne l’uso, nei campi di cotone è finita la più alta quota di pesticidi per ettaro, pari a 4,6 kg, superiore a quella destinata a mais, soia e frumento.

I rischi dei fertilizzanti, che per essere prodotti consumano enormi quantità di energia, sono legati al rilascio di componenti chimiche dannose nell’aria, nelle acque. E per il cotone si utilizzano soprattutto quelli a base di nitrogeno, responsabili delle emissioni di protossido di azoto, considerato un gas serra 265 volte più potente del diossido di carbonio. Anche l’uso di semi geneticamente modificati, che interessano ormai il 94% dei campi di cotone solo negli Stati Uniti, è portatore di danni all’ambiente: considerando che nel 2019 il cotone era la terza coltura del pianeta con il ricordo più alto al biotech, dopo la soia e il mais e prima della canola, il report denuncia che la diffusione di sementi modificate, iniziata nel 1995, abbia condotto allo sviluppo di piante infestanti sempre più resistenti agli erbidici, che si stanno peraltro diffondendo anche nelle colture di cotone organico.

Un grande problema per i coltivatori di questo tipo di cotone, che al momento hanno a disposizione una limitata quantità di prodotti e tecniche a loro supporto, poiché i protocolli proibiscono l’uso di pesticidi sintetici tossici, fertilizzanti di sintesi, sementi geneticamente modificate e i fanghi di depurazione trasformati in concime. Permessi sono invece gli insetticidi naturali, dunque derivati da minerali, piante, o a base di feromoni, oppure il Bacillus thuringiensis, un batterio sporigeno che vive nel terreno ed è in grado di uccidere larve di insetti dannosi per le coltivazioni. Per fertilizzare il terreno si possono usare trifoglio, segale e altre colture a rotazione, mentre per sfogliare le piante è permesso il razionamento dell’irrigazione, al posto dei defoglianti chimici.

Il 97% del cotone organico mondiale è prodotto in otto Paesi, India, Turchia, Cina, Kyrghizistan, Tanzania, Kazakhstan, Tajikistan e Stati Uniti e fra 2022 e 2023 si stima che siano state prodotte circa 772mila tonnellate di questo tipo di cotone, pari al 3,2% della produzione globale, anche se la quota di cotone prodotta secondo principi di sostenibilità è salita al 29%. Per farla aumentare ancora, con impatto positivo sul pianeta, il report indica come necessarie l’azione di istituzioni e governi, per rendere consapevoli i coltivatori delle loro scelte, ma anche il supporto economico e fiscale all’agricoltura biologica. Non meno importante l’impegno da parte dei marchi globali, soprattutto quelli dell’industria della moda, nel sostenere le colture organiche e nel sensibilizzare i consumatori ad acquisti responsabili.

Fonte: Il Sole 24 Ore