L’intelligenza non sta dentro le macchine, è umana
Il povero pappagallo è tirato sempre in ballo quando si parla di tecniche che riproducono la conoscenza senza aiutare a comprenderla. L’intelligenza artificiale generativa, definita pappagallo stocastico, è l’ultima di una lunga storia. Socrate, raccontato da Platone, critica la tecnica di imparare a memoria le nozioni senza capirne il senso, paragonando chi l’adotti a un pappagallo. E lo ripete Cartesio, nelle Meditazioni. Forse stupisce che si trovi l’uso della medesima parola nella critica che, negli anni Settanta del XVII secolo un poeta come Quirinus Kuhlmann rivolge alle funzioni educative dell’Organum Mathematicum progettato da Athanasius Kircher, successore di Keplero alla corte degli Asburgo come matematico reale: quella macchina produce musica, scrive poesie, realizza calcoli. Ma Kuhlman sostiene che non insegna nulla, piuttosto genera pappagalli. «Perché l’intelligenza è dentro le persone, non negli strumenti che usano».
L’esperienza non può essere automatizzata
In questa tradizione, solidamente documentata, le macchine della conoscenza fanno una figura meno rilevante degli umani che apprendono, esplorano e conoscono: «L’esperienza non può essere automatizzata da qualche dispositivo ingegnoso» scrive Dennis Yi Tenen, docente di letteratura alla Columbia University, nel suo libro “Teoria letteraria per robot” (Bollati Boringhieri 2024). Certo, l’idea dell’intelligenza artificiale generativa come pappagallo stocastico è decisamente meno coinvolgente del racconto dell’intelligenza artificiale “aliena” che può rendere schiavi gli umani o addirittura annientarli, come scrive Yuval Noah Harari nel suo recente libro “Nexus” (Bompiani 2024). Ed è anche meno misteriosa dell’esoterica previsione transumanista di Ray Kurzweil, autore de “La singolarità è più vicina” (Apogeo 2024).
Eppure la prospettiva che emerge dalla ricostruzione storica di Tenen offre spunti notevoli. Non cattura i lettori con la retorica dell’ansia o del progresso ineluttabile, ma ne libera le facoltà critiche. «In qualsiasi epoca, gli umani pensano che il presente sia eccezionale. Ma se guardano alla prospettiva scoprono in sé stessi le facoltà che servono per guidare la loro storia» dice, a Nòva, Tenen. «L’intelligenza artificiale è frutto di un processo sociale complesso, tecnicamente straordinario. Ma non ha una sua soggettività». Nonostante le parole che la nominano, non è la macchina a essere intelligente: è la collettività che l’ha creata. «Questo modo di definire il problema sottolinea le responsabilità degli umani». Tenen parla il 10 novembre al Learning More Festival di Modena. E propone una visione intellettualmente impegnata delle trasformazioni che attraversano la società in relazione agli strumenti della conoscenza. In questo contesto, l’innovazione del processo educativo è la questione essenziale per affrontare realisticamente quelle trasformazioni.
L’Ai va contestualizzata nelle diverse culture
E questo conduce alla preparazione ai cambiamenti nel mondo del lavoro. «È inutile negarlo, l’intelligenza artificiale automatizza molte mansioni dei lavori intellettuali. Occorre prepararsi». Come? «Il lavoro che viene automatizzato perde valore» dice Tenen. «Ma il lavoro che serve a risolvere problemi difficili, invece, aumenta di valore. Le prossime fasi dello sviluppo dell’intelligenza artificiale si occuperanno della contestualizzazione delle tecnologie nelle diverse culture. Le intelligenze artificiali generative devono per esempio imparare quali frasi sono offensive in quali società. Occorre che la macchina venga allenata alle differenze di contesto. Gli ingegneri più capaci stanno cercando di comprendere le dinamiche sociali e gli studiosi di scienze umane stanno diventando sempre più consapevoli delle tecnologie digitali. C’è una convergenza tra discipline. Chi la comprende produce valore perché partecipa alla progettazione di frontiera. Questa convergenza è essenziale per i problemi che non hanno una sola soluzione giusta». L’educazione ne viene trasformata: «L’ingegneria diventa una disciplina umanistica. Le scienze sociali diventano tecnologiche. E anche il lavoro cambia di conseguenza».
La conoscenza è un bene comune
Ma il successo di questa visione non è scontato. Le narrative prevalenti, più ansiogene e manipolatorie che descrivono tecnologie destinate a diventare ineluttabilmente più potenti, destituendo progressivamente gli umani delle loro prerogative e responsabilità, sono compatibili con un sistema che concentra la produzione e gestione dell’intelligenza artificiale in poche gigantesche aziende globali. «Se si toglie il velo della narrazione, si trova una storia familiare di colonizzazione, polarizzazione, monopolio» dice Tenen. «Ma la conoscenza è un bene comune. E l’intelligenza appartiene all’umanità. È un po’ come una biblioteca pubblica».
Fonte: Il Sole 24 Ore