Trump e l’Asia: quali saranno i rapporti con lo scomodo gigante cinese

Dal nostro corrispondente

NEW DELHI – Il terremoto politico che ha riportato Donald Trump alla Casa Bianca è destinato a generare onde imponenti. E – se le promesse elettorali saranno mantenute – i marosi che attraverseranno l’Oceano Pacifico potrebbero trasformarsi in uno tsunami lanciato a grande velocità verso le coste asiatiche. A doverci fare i conti sarà in primo luogo la Cina. Ma, in virtù del peso economico e politico dei contendenti, sarà tutto l’Indo-Pacifico a misurarsi con scelte che potrebbero stravolgere gli equilibri economici e strategici di alcuni dei principali motori della crescita mondiale.

Il bersaglio cinese

Il punto di partenza sono inevitabilmente i dazi. In campagna elettorale Trump ha promesso tariffe del 60% sui beni di consumo cinesi. Se mantenesse la parola, Pechino – con i suoi 500 miliardi di dollari di esportazioni verso gli Stati Uniti, il 15% del totale – si troverebbe di fronte a una sfida a dir poco complessa. Per capire quanto, basta fare un raffronto con ciò che è accaduto nel 2018-19, quando l’agenda protezionista del leader repubblicano si concretizzò in dazi oscillanti tra il 7,5% e il 25% su 370 miliardi di dollari di beni made in China. Questa volta, oltre a tariffe più che doppie, a fare la differenza ci sarebbero le condizioni dell’economia cinese, che non sono più quelle del 2018.

All’epoca, un quarto del Pil di Pechino ruotava intorno al settore immobiliare. Oggi il real estate è in profonda sofferenza e non potrà aiutare la Cina ad assorbire l’impatto di una nuova guerra commerciale. Non solo. La crisi immobiliare ha zavorrato le amministrazioni locali di debiti destinati a ridimensionare di molto l’arsenale fiscale dispiegabile per attutire shock esterni. Un quadro reso ancora più incerto da altri fattori: una domanda interna che resta debole, con i consumi delle famiglie inferiori al 40% del Pil, circa 20 punti in meno della media mondiale; pressioni deflattive che verrebbero aggravate da una contrazione della domanda estera; margini di manovra limitati per deprezzare lo yuan di quel 18% che, secondo alcune stime, consentirebbe di compensare un 60% di dazi verso gli Stati Uniti.

Le possibili risposte

«La Cina – spiega Alicia Garcia Herrero, Asia Pacific chief economist di Natixis – di fatto non può rispondere» a tariffe doganali di questa portata. «Ciò che può fare – prosegue – è annunciare nuovi stimoli all’economia, così che i mercati non la penalizzino». Ma anche a cercare di contrattaccare. Per esempio imponendo dazi sul settore agroalimentare (grazie ai solidi rapporti commerciali con il Brasile), penalizzando le imprese americane con forti interessi cinesi e introducendo dei limiti all’esportazione di materie prime cruciali. È già accaduto lo scorso anno con il gallio e il germanio, due metalli utilizzati nei settori della difesa, delle comunicazioni e dei semiconduttori.

Fonte: Il Sole 24 Ore