In Israele agricoltura vittima collaterale di un anno di guerra

In Israele l’agricoltura ha rappresentato sempre un importante settore. Non tanto per i numeri che genera, ma per la valenza sociale. La maggior parte delle comunità presenti alla fondazione dello Stato, kibutzim e moshav, erano, e sono ancora, create su modelli agricoli e impegnati in attività in quel settore.

Lo scoppio della guerra contro Hamas a Gaza con il massacro del gruppo proprio nei kibbutz del sud, l’attacco di Hezbollah dall’8 ottobre dell’anno scorso verso il nord d’Israele dove insistono molte aziende agricole, obbligate all’evacuazione, hanno creato non pochi problemi al settore.

Secondo la Banca Mondiale, nel 2021 la superficie agricola in Israele era pari al 29,74% del territorio. Più del 30% dei suoi terreni agricoli si trova nelle aree di guerra: circa il 22% nell’area di Takuma (che circonda Gaza) e un altro 10% sul confine settentrionale, di cui il 7% in Galilea e il 3% nel Golan.

La quota di prodotto agricolo del Pil è scesa dall’11% al 2,6% tra il 1950 e il 2008, per attestarsi intorno all’1% l’anno scorso, uno dei peggiori dalla fondazione dello Stato, e la quota di esportazioni agricole è diminuita dal 60% a meno del 2% del totale. Questo, nonostante un aumento assoluto delle esportazioni annuali da 20 milioni $ nel 1950 a 1,2 miliardi nel 2009 dovuto, tra l’altro, all’ampia introduzione di metodi agricoli innovativi, moderne tecnologie di irrigazione e trattamento delle acque e agricoltura orientata all’esportazione. La guerra ha causato un’ulteriore perdita di 150.000 tonnellate di prodotti agricoli solo nei primi sei mesi, per un valore di circa 178 milioni di dollari. Senza contare che l’attacco alle comunità agricole del sud, ha portato all’uccisione di molti lavoratori del settore, obbligando gli altri a tornare nei loro Paesi. Anche l’evacuazione delle comunità al nord, ha costretto molti lavoratori stranieri del settore a lasciare il Paese.

«C’è molta tensione qui. Per tutto il giorno – ha detto alla televisione Eyal Ovadia, residente nel Kibbutz Kabri nel nord e presidente di un comitato di agricoltori – ci sono attacchi. I contadini nel nord lavorano sotto il fuoco nemico e rischiano la vita ogni giorno. Ma gli agricoltori non lasciano le piantagioni. Qui fa paura, ma continueremo a proteggere i nostri territori. I lavoratori thailandesi, invece, non vogliono scendere nei campi. Le aree agricole sono definite aree aperte e lì i razzi non vengono intercettati, si lasciano cadere, quindi il pericolo è grande. Vogliamo che l’esercito continui ad attaccare e con la forza, dopo un anno, finalmente stiamo facendo qualcosa».

Fonte: Il Sole 24 Ore