I millennial contano ancora,alto impatto su consumi e trend
«Ne parlavamo tanto tanti anni fa, di quanto è paranoica questa città, della sua gente e delle sue manie, due discoteche e centosei farmacie». È il passaggio di una delle canzoni più iconiche degli 883, tornata prepotentemente di attualità in questo autunno 2024 che sembra portarci indietro di trent’anni, spostando le lancette a quei ‘90 così mitizzati dall’immaginario collettivo. La serie Sky Original di Sydney Sibilia “Hanno ucciso l’Uomo Ragno – La leggendaria storia degli 883” come prima stagione è quella più vista negli ultimi otto anni sulla piattaforma Sky. I primi due episodi hanno cumulato oltre due milioni di spettatori dal debutto e ogni settimana le nuove puntate hanno intercettato quasi 1,4 milioni di spettatori. Si tratta di una storia di musica e di amicizia. Una storia di provincia, di illusioni, di coraggio. Una storia che racconta un successo travolgente, imprevisto, imprevedibile. Ma dietro ai due ragazzi underdog di Pavia c’è una generazione fino a poco tempo fa trascurata sotto il peso della Z e delle fasce più mature come i silver. Quella dei millennials, noti anche come generazione Y.
La rivincita della Y
Ma i millennial sono ancora un ottimo affare. Strategici perché incidono su business e piani marketing. Partiamo dai numeri che evidenziano forte potere d’acquisto e capacità di generare interazioni orientando i consumi. I nati tra il 1981 e il 1996 nel mondo sono 2,3 miliardi ossia il 28,6% dell’intera popolazione globale. Cluster numeroso e spesso sottovalutato: i millennial hanno superato numericamente i boomer e secondo le stime del Pew Research Center la loro incidenza d’acquisto nel mondo raggiungerà i quattromila miliardi di dollari nel prossimo 2025. «Quella dei millennial è una coorte generazionale specifica composta da individui che oggi hanno tra i 28 e i 43 anni. Una fascia anagrafica venuta dopo l’indefinita e ibrida X e che nel tempo ha saputo assumere determinate caratteristiche. Chi ci appartiene registra un buon potere d’acquisto, anche se non elevato come quello dei genitori, e gioca una partita su più tavoli. Così la spesa viene distribuita su più categorie merceologiche che diventano centrali per i consumi. Si tratta di abbigliamento, viaggi, elettronica. Ma non solo. È una generazione con una forte capacità di incidere sulle altre fasce: influenza i consumi dei genitori, ossia dei boomer che subiscono i condizionamenti sui prodotti tecnologici, ma l’influsso si estende anche sulla Z», afferma Geraldina Roberti, professoressa associata di sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università La Sapienza di Roma e autrice di “Vite da millennials. Culture e pratiche comunicative della generazione Y” edito da Guerini. In fondo è come se gli hype narrativi avessero riguardato esclusivamente zoomer, alpha e boomer. «È come se questa fascia di mezzo sia stata trascurata e poi infine riscoperta. Ad esempio quelle più mature oggi sono più attive, godono di tempo libero e hanno alto potere di acquisto. Invece la Z rappresenta il futuro dei consumi e in fondo ha riacceso le speranze legate all’impegno sociale e civile. Una sorta di antidoto all’individualismo e al narcisismo dei millennial, particolarmente centrati su loro stessi, ma col tempo diventati comunque espressione di una maggiore attenzione ai temi di sostenibilità e alla ricerca di modelli di personalizzazione estrema», precisa Roberti. Così per le marche c’è la necessità di una riscoperta di questa generazione, da integrare nelle strategie marketing e nelle campagne commerciali e di posizionamento. «Due sono le parole chiave strettamente interconnesse che dovrebbero guidare questo riassetto. C’è l’autenticità e c’è la trasparenza. Le organizzazioni devono rappresentare certi valori in modo coerente e non artefatto. Questo discorso della fiducia è fondamentale nella scelta dei brand ambassador, ossia nell’individuare figure che sappiano rappresentare la fiducia», dice Roberti.
La zampata sui consumi
È la “me-me-me generation”. Così il Time ha definito la Y in una copertina passata alla storia, con quella espressione di individualismo ripetuta ben tre volte. Lo ha sottolineato anche Jean Twenge, docente di psicologia alla San Diego University, nel suo bestseller “Generation me”. Un manifesto identitario di una fascia (all’epoca) di giovani americani più sicuri di sé, assertivi, presuntuosi e inevitabilmente più infelici. D’altronde uno snodo chiave è legato alla personalizzazione estrema, che diventa riflesso di un certo modo di pensarsi nella comunità. Dalla vita in famiglia alle sfere amicali, dal tempo del lavoro a quello libero: con la Y tutto si ridefinisce e si può fare. «Siamo di fronte ad un fenomeno che lega la fine delle grandi narrazioni collettive unificanti verso logiche più individuali. I prodotti e i servizi vengono ritagliati su misura. Pensiamo soltanto al successo del palinsesto personale musicale di Spotify, costruito attorno ai singoli consumi e diventato centrale per questa generazione. Ma questo individualismo non implica necessariamente uno scarso impegno perché siamo davanti a consumatori più consapevoli e coerenti. I millennial sono quelli che hanno spinto l’acceleratore sulla condivisione, privilegiando l’accesso rispetto alle logiche del possesso, elemento diventato centrale per i più giovani. Sono anche più critici verso consumi poco sostenibili. Così si spiega il boom dello slow fashion o della ricerca di prodotti biologici. E poi sono inclusivi nella visione del mondo. Una coerenza tra proclami e azioni legata proprio alla maggiore disponibilità economica, mentre la generazione Z sconta quel gap tra atteggiamento e comportamento», conclude Roberti. Così tra il dire e il fare c’è di mezzo il mercato. In fondo ancora una volta è la coerenza tra scelte teoriche e azioni concrete a marcare la distanza tra le generazioni.
Fonte: Il Sole 24 Ore