Francia, Macron rieletto presidente con il 58,6%: «Risponderò alla rabbia del Paese»
Un paese radicalizzato
Il vero nodo è squisitamente politico. Dalle elezioni, dal primo turno, è emerso un dato importante, che non potrà essere ignorato: il 57,8% dei votanti si è espresso a favore di un partito radicale, estremo, di sinistra (il 25,5%) o di destra (il 32,3%). Se si aggiungono i Verts, che in Francia tendono però a essere più pragmatici che altrove, la percentuale sale al 62,5%: un votante su tre vuole non una politica nuova ma, di fatto, un sistema politico totalmente diverso. Anche Mélenchon, come Le Pen, vuole infatti una Sesta repubblica, e Zemmour intende varare comunque una vasta riforma istituzionale.
Una «tecnica» poco «politica»
Macron non ha dato risposte alla forte domanda di una politica nuova, che riconosca il disagio – non solo e non tano economico, per quanto problemi non manchino – di una vasta parte della popolazione. Ha adottato misure “tecniche”, ha puntato sull’efficienza della politica, si è mosso anche in modo relativamente spregiudicato, libero com’è da vincoli ideologici: ha per esempio sostenuto la gendarmerie anche durante momenti difficili per le forze dell’ordine, ha varato misure contro il “separatismo islamista”, opportune ma per alcuni critici un po’ al limite del rispetto della libertà di associazione (i musulmani di Francia hanno, spesso, votato Mélenchon). Ha però dimenticato i vasti territori francesi – a parte il Gran débat national con i sindaci di tutto il paese – non certo risolutivo, e ha dimenticato – malgrado un omaggio puramente formale, esteriore, agli aspetti simbolici della politica. «Risponderò alla rabbia del Paese», ha detto ieri.
I vincoli della democrazia non plebiscitaria
La sua strada ha effettivamente un vincolo. Non può passare, né incrociare la strada tracciata da Le Pen, da Zemmour, da Mélenchon e dai Gilets Jaunes. Tutti chiedono, malgrado una leadership evidentemente autoritaria, un uso massiccio dei referendum, con l’obiettivo di scardinare il sistema: per cambiare la costituzione, come nel caso di De Gaulle (che però si mosse formalmente nella legalità costituzionale della quarta repubblica, senza forzature), oppure per l’approvazione dei trattati internazionali (come Zemmour). Solo una Convention, dedicata al clima, è stata varata, con la partecipazione – non particolarmente creativa, sembra – di 150 cittadini. Non è solo un problema di ricreare la concordia tra i francesi, impegno comunque importantissimo: è qualcosa che va oltre.
La prossima sfida: le legislative di giugno
Il rischio inoltre non si manifesterà certo tra cinque anni, quando Macron peraltro non potrà più ripresentarsi, ma subito, con le elezioni legislative del 12 e 19 giugno. Il sistema a doppio turno francese impone inevitabilmente una semplificazione del quadro politico, demandata peraltro agli elettori stessi. Non è detto però che, nel partito molto verticistico, quasi personale, di Macron, i candidati possano sempre emergere come nel 2017, quando la novità-Macron fece il pieno. Marine Le Pen, non a caso, pur ammettendo la solitudine del suo partito («siamo soli») e confermando l’intenzione di «continuare il proprio impegno per la Francia e i francesi», ha lanciato la «battaglia delle legislative», per evitare che il presidente possa prendere di nuovo la maggioranza. La battaglia continua.
Fonte: Il Sole 24 Ore