Diciotto anni di Poesia Festival

Dai bar lungo le vie periferiche alle aule scolastiche, dai tramonti nei centri storici alle albe sotto i cavalcavia, il Poesia Festival è giunto alla 18esima edizione battendo ogni frazione della provincia modenese, dentro l’Unione comunale Terre di Castelli. E affinché il “bisogno di poetico” non si riduca a una sequela di slogan da bacheca social, il comitato scientifico della manifestazione, composto da Roberto Alperoli, Alberto Bertoni e Roberto Galaverni, ha cercato di coinvolgere più lettori possibili, senza vincoli generazionali, puntando ad abbandonare il solito approccio frontale di chi si piazza su un palco, sotto i riflettori, bensì evolvendo in un progetto che duri un anno intero, per riscoprire le potenzialità del linguaggio in versi, l’approccio lento alla lettura, le risorse di una lingua che deve aderire all’emotività dell’individuo, rendendola conoscibile a sé ed esprimibile agli altri.

I poeti Valerio Magrelli e Guido Monti, interrogati dal critico Galaverni, chiuderanno il fine settimana nel Teatro Fabbri di Vignola, seguiti dalla chitarra di Eugenio Bennato.

Le stanze della poesia

“Exfanzia” (Einaudi) di Magrelli e “Le stanze” (peQuod) di Monti sono raccolte intrise di relazioni, vissute sia attraverso gli incontri che scandiscono i giorni, sia tramite i libri di sempre. Con relazioni s’intendono le prospettive verso il prossimo, non le richieste di una verità incartata, evidenziando la mancanza di attenzione dilagante rispetto a una fragilità sostanziale e condivisa. Monti brucia il superfluo quotidiano e le priorità imposte dai media, “continua la fiamma, metto dentro l’Economist”, per esaltare lo scambio emotivo quale compimento e apice dell’attimo salvifico, così il fiammifero stretto nel pugno di sua figlia Nina. Gli esseri umani si snaturano inseguendo un’apparenza sempre più convulsa e impersonale, sfuggendo a quei rapporti totali che per intensità tendono ad accentuare l’effimero che ci attende, “ma puliamo almeno lo spazio interno dagli isterismi”.

All’ “ora incerta” che assilla il poeta già dal verso incipitario, e che riecheggia il Levi consunto dall’oscurità avvolgente come una seconda quanto sgradevole pelle, contrappone “la difesa dell’allegria” di Benedetti, “il sorriso che qui gira” della bimbaper casa. Spesso è proprio la paura a imporre la notte, a nascondere l’autenticità di un momento, la sua aurora epifanica. Tuttavia la poesia accoglie l’ombra del dubbio, persino i passi falsi e i doppi fondi, ma non può legittimare il tradimento, non quello della propria materia interiore, soffocata la luce di un sentimento riconosciuto e depositato. Senza integrità non nascerebbe alcun verso: “non più meccanismi di apparati, avete detto ciò che degno / deve rimanere e che solo poesia può riportare”.

La citazione di Perilli in esergo ricorda la posa che assume Elio Germano nel “giovane favoloso” di Martone; ossia il peso che il cielo sembra esercitare sulla schiena di Leopardi, conteso tra la diffidenza in una società già nichilista e la fiducia nella parola che eterna, fatalmente leggera, poiché fondata su niente. E talmente che i versi lunghi, ma mai prosastici, di queste stanze contengono sia un incessante labor limae, sia un approccio ironico davanti all’impossibilità degli stilemi tradizionali di definire in toto il tumulto del contemporaneo.

Fonte: Il Sole 24 Ore