Il nostro presente, la violenza e la democrazia
Come siamo arrivati a questo presente, che abbiamo davanti agli occhi (in Italia ma non solo)? Un presente nel quale la dimensione del “noi” è completamente scomparsa dalle nostre vite, dai nostri pensieri, dal nostro stesso lessico: completamente annientata e sostituita da un “io” che definire individualista sarebbe riduttivo, un “io” ormai dispotico, quasi tirannico. Un presente nel quale tutto sembra frantumato, polverizzato: il nostro senso di appartenenza a un comune destino, chiusi e reclusi come siamo nelle nostre separazioni identitarie; la nostra memoria collettiva, se non di più (nel senso che forse ha ragione chi dice che non solo non esistono più memorie condivise ma non esiste più neppure la memoria tout court, che non esiste più il ricordo del passato ma esiste solo il tempo dell’oggi, dell’ora e del qui); il lavoro, il modo di lavorare – e lo vediamo ogni giorno.
Anche il diritto si è frantumato, se non perfino smarrito, perché se c’è un elemento che caratterizza la produzione legislativa di questi ultimi anni è la sua sovrabbondanza, la sua incontenibilità: le norme si sono moltiplicate e continuano a moltiplicarsi a dismisura, in ogni campo, in flussi inarrestabili di parole e sovrapposizioni (in un linguaggio oltretutto sempre più orientato alla burocrazia che al diritto). E perché? Ma proprio per questo: perché tutti pretendiamo continuamente l’emanazione di norme che facciano al nostro caso, che assecondino le nostre esigenze del momento, ciascuno per sé, sul presupposto che il nostro “io” coincida con l’io di tutti gli altri, che la complessità del mondo possa essere semplificata e ridotta a misura del nostro sé (personale o politico). Come se qualunque istanza, per il semplice fatto di essere reclamata, non potesse che essere assolutamente giusta. È un diritto che ha perso o sta perdendo la sua funzione, che dovrebbe essere invece quella di tendere verso una giustizia nella quale a tutti, reciprocamente, sia dato di riconoscersi, a nessuno più che ad altri; verso una giustizia che sappia includere i propri limiti, nella quale la ragione di ognuno sia disposta a mettersi anche dalla parte del torto – rinunciando alla pretesa di un sé inderogabile, universale.
Come siamo arrivati a tutto questo? A partire da quando il nostro “io” ha cominciato a superare i confini oltre i quali un individualismo ancora orientato socialmente, ancora pur sempre rivolto alla costruzione di legami e relazioni interindividuali, si è ripiegato su un individualismo solo egocentrico, solo egolatrico? È una domanda che sembrano porsi anche Luigi Manconi e Gaetano Lettieri in un libro appena uscito dal Saggiatore, “Poliziotto – Sessantotto. Violenza e democrazia”. Per la verità sono molte, le domande che si pongono Manconi e Lettieri nel loro libro, densissimo e multicentrico; e non per forza, naturalmente, si dev’essere d’accordo con le risposte che a ciascuna provano a fornire, con le loro tesi e le loro visioni del mondo. Ma quantomeno è difficile resistere alle suggestioni provenienti da quella che possiamo considerare la tesi centrale, secondo cui è possibile individuare un momento in particolare, nella nostra Storia recente, rappresentativo di una grande occasione mancata (o di un sogno tradito, se si preferisce), a partire dal quale le cose potevano andare diversamente rispetto a come poi sono andate: ed è il decennio successivo al 1968.
Perché ciò che in effetti è difficile negare è che quel movimento generazionale fosse dotato di un’enorme potenzialità trasformativa, nei suoi ideali; e tuttavia sembra altrettanto innegabile che tale potenzialità non sia stata capace di realizzare quella trasformazione della società e delle istituzioni che doveva costituirne l’esito, e cioè di tradursi in una cultura riformistica. È come se tutta la potenzialità di quel movimento fosse infine implosa in sé stessa, dissipandosi e lacerandosi al proprio interno: fino al punto, si potrebbe affermare, di rimanere a sua volta vittima delle proprie derive violente. La stessa morte di Moro, sotto questo aspetto, può davvero assurgere a simbolo: non solo della conclusione di un decennio ma anche di una tragica perversione (perché i padri dovevano essere contestati e spodestati, non uccisi); e dunque di un parricidio privo di pietà, “punto di catastrofe delle aspirazioni libertarie, comunitarie, rivoluzionarie del Sessantotto” (Lettieri).
Ecco: al crollo di queste aspirazioni ha fatto seguito un vuoto che non siamo più riusciti a riempire altrimenti; o che abbiamo riempito, appunto, solo dei nostri individualismi, venuta meno per il resto ogni tensione verso una giustizia che li trascenda, verso un orizzonte più vasto. Certo, nessuna norma potrà mai contenere l’infinito, ma dovrebbe comunque aspirarvi, perché in fin dei conti non è altro che questa la responsabilità cui il diritto dovrebbe sentirsi sempre chiamato, pur consapevole dei propri limiti: aspirare alla giustizia infinita, pur negoziandola nella quotidianità
Fonte: Il Sole 24 Ore