A Maratea e San Costantino Albanese con Nitti e Levi
Il verde della macchia mediterranea e l’azzurro del mar Tirreno, due elementi che accompagnano costantemente chi approda nell’incanto di Maratea e che rimangono negli occhi anche a distanza di giorni, assieme a colui che vigila su tutto e tutti dal punto più alto dell’isola: il Cristo voluto dall’imprenditore biellese Stefano Rivetti, che si innamorò del luogo e volle l’imponente statua alta 21 metri (ne parla Chiara Beghelli ne Il grande telaio, Luiss 2024). Non si stenta a credere, di fronte alla bellezza abbagliante della natura e all’attitudine all’accoglienza dei marateoti, che Francesco Saverio Nitti, nel 1921, avesse scelto questo lembo di terra per ritirarsi nello studio e dedicarsi alla stesura della trilogia sulla crisi europea (L’Europa senza pace , La decadenza dell’Europa, La tragedia dell’Europa, riproposti da Edizioni di Storia e Letteratura), mentre la minaccia fascista era incombente.
Vista sul Tirreno turchese
Villa Nitti, ad Acquafredda di Maratea, era il riparo dello statista lucano, il luogo amato accanto alla Melfi in cui era nato nel 1868 (dove oggi è attiva la fondazione a lui intitolata) e cresciuto prima di spiccare il volo a Napoli, studiare giurisprudenza, diventare professore ordinario di Scienza delle finanze e poi approdare alla presidenza del Consiglio dei ministri (nel 1919, in un crinale storico difficilissimo), senza dimenticare mai le proprie origini. Percorrere il viale che porta alla villa o guardare l’edificio dal basso, con la distesa azzurra del mare alle spalle e gli arbusti che ricoprono la facciata, significa immaginare il contesto in cui si muoveva un intellettuale e politico tra i maggiori del Novecento (ce ne ha offerto un ritratto Giuliano Amato sullo scorso numero del supplemento Domenica). ma anche la sua quotidianità nella pace di quel luogo, tra libri, carte, documenti e una scaletta che porta al mare. Partire in esilio a Parigi, dopo la devastazione della casa a Roma ad opera delle camicie nere, fu una scelta obbligata, ma probabilmente la nostalgia di questo posto (a cui i discendenti sono sempre rimasti legati) rimase forte, in Francia. Adesso la villa è proprietà della Regione Basilicata, donata da Filomena (la più piccola dei figli: prima di lei c’erano Vincenzo, Maria Luigia, Giuseppe e Federico) agli inizi degli anni Settanta, dopo la tragedia che l’aveva segnata. Il figlio Gianpaolo, giovane storico e promessa della politica, era morto a 37 anni nel 1970 in un incidente d’auto sui tornanti lucani il giorno dopo essere stato eletto come indipendente nelle liste del Partito comunista nel primo consiglio regionale della Basilicata. Un dolore troppo grande da affrontare, un luogo troppo amato per disfarsene in modo prosaico. L’idea di Filomena, affidandolo all’istituzione, era quella di perpetuare la lezione nittiana – di pace, libertà, modernità – lasciandone traccia e testimonianza vive. Oggi la villa è chiusa, sono in corso lavori di restauro, in questi anni è stata sede di importanti convegni e incontri. Sarebbe bello se potesse essere aperta e visitabile, studiandone un allestimento adeguato: diverrebbe così un ulteriore tesoro offerto a chi arriva a Maratea.
Nel cuore del Pollino
Il viaggio dall’unica località lucana sul Tirreno, stretta tra la Calabria e la Campania – dopo una passeggiata tra i vicoli del borgo e una sosta nel settecentesco Palazzo De Lieto – per andare a San Costantino Albanese, dura un’oretta. Sin dal nome, il piccolo paese nel parco del Pollino rivela la sua particolare identità: qui (e nel vicino comune di San Paolo) aveva trovato accoglienza nel ’500 la comunità esule albanese, in fuga dall’Albania caduta in mano ai turchi. Era, esattamente, il 1534 quando fu fondato il casato di San Costantino (Shen Kostandini, come si legge nel cartello di benvenuto) e ancora oggi i circa 800 abitanti parlano la lingua arbëreshe – che si studia a scuola al pari dell’italiano –, celebrano il rito greco bizantino nella bella Chiesa Madre, in piazza, salvaguardano le tradizioni, a partire dal costume arbëresh indossato dalle donne. Salendo al rifugio Acquafredda, con il giallo intenso della ginestra che ci accompagna lungo la strada sino ai 1.000 metri di altezza, si possono gustare prelibatezze culinarie tipiche del luogo, dal capocollo al “pasticcio” con l’uovo agli ormai immancabili peperoni cruschi, fino ai diversi tipi di pasta fresca, seguiti da un trionfo di carne alla brace e infine dai dolci fatti in casa serviti con liquori a base di erbe e frutti selvatici del Pollino. Vale la pena apprezzare tutto questo dopo aver camminato lungo uno dei sentieri nel bosco ed essersi rigenerati nel silenzio. Probabilmente Carlo Levi non poté farlo per via della neve, quando venne qui nel dicembre 1974, durante il suo ultimo viaggio in Basilicata. Il pittore, scrittore e politico torinese trascorse diversi giorni nella regione, si fermò ad Aliano – riconciliandosi con il paese che si era sentito offeso dalla narrazione di Cristo si è fermato a Eboli – e appena prima sostò una notte a San Costantino Albanese, invitato dall’editore d’arte Ciccio Esposito (originario del luogo) che aveva realizzato sette litografie del Cristo. L’intellettuale, sollecitato a lasciare un segno della sua presenza, prese un carboncino spento dal camino e disegnò di getto tre ragazzi in costume arbëresh sulla parete della casa in cui erano riuniti a cena, poi colorò il disegno con dei gessetti recuperati da qualcuno lì sul momento. Fu l’ultima prova artistica di Carlo Levi, estemporanea, su un muro di quella Basilicata in cui da giovane aveva sofferto ma della quale, ben presto, si era innamorato. Meno di un mese dopo, il 4 gennaio 1975, morì, e fu sepolto ad Aliano.
Fonte: Il Sole 24 Ore