A Miami il composto tributo di Louis Vuitton all’eredità di Virgil Abloh

A Miami il composto tributo di Louis Vuitton all’eredità di Virgil Abloh

Il panegirico del compianto Virgil Abloh, in corso sul web e sui social – in quest’ultimo luogo, immateriale ma inevitabile, marchiato dalla onanistica esibizione della foto con il caro estinto, che invariabilmente sposta l’attenzione dalla tragedia al narcisismo di chi dichiara, con tanto di documento visivo, «io lo conoscevo» quando chi ne era davvero amico magari tace – mette a dura prova chiunque voglia leggere il personaggio e la portata del suo operato con lucidità.

Il metodo Abloh: la libertà delle idee e dell’esecuzione

Le innumerevoli emozioni sovrapposte, le accorate invocazioni al genio, la pletora di analisi socioculturali, affrettate o semplicistiche, rischiano di obnubilare lo sguardo. Il fatto è che Abloh per primo ha sempre sfuggito le definizioni univoche, preferendo l’immaterialità dell’idea alla materialità delle cose. Ha inventato un metodo, portando al parossismo la tendenza al sampling, ossia al campionamento, che nella moda è iniziata con l’avvento del web e la fine della linearità della storia in nome dell’eterno presente postmoderno. Però Abloh ha esteso il territorio da campionare, muovendosi con una libertà, e anche una ingenuità, tutte americane dalla moda all’arte, dalla cultura popolare alla musica, realizzando infine il tanto agognato melting pot.

Per questo, ha reso le categorie critiche di solito applicate alla moda cosa del passato: leggere il suo lavoro come quello di un fashion designer è infatti mancare il punto, perché il design era l’ultimo dei suoi interessi. Eppure senza design moda non ce n’è, e lo show di tributo che si è svolto ieri a Miami – uno spin off della collezione Louis Vuitton primavera/estate 2022 – ne è stato la dimostrazione, lampante come l’uscita finale di tutto il team – folto, di giovane età, multietnico – a raccogliere commosso l’applauso.

I fondamentali meriti del team Vuitton

Abloh aveva un’aura magnetica, di gentilezza vera; lo muoveva un afflato inclusivo, raro per chi ce la ha fatta e tende ad escludere gli altri; di certo partoriva cento idee al giorno, o al minuto. Ma le idee sono idee, e contano solo quando entra in gioco l’esecuzione, per la quale invece il professionismo è indispensabile. E sono di certo tutti professionisti i membri del design team Vuitton, come del team Off-White. L’ineffabile immaterialità di Abloh, insomma, ha sempre avuto bisogno del duro lavoro di studio per planare a terra e farsi prodotto, e questa collezione Vuitton, magnifica stratigrafia di rimandi alla cultura nera e alle sottoculture che essa ha influenzato, ne è la prova, senza nulla togliere all’ampiezza e liberalità dello speculare di Abloh. È un opus corale e collettivo, cesellato e filtrato mille volte come solo i lavori a più mani possono essere.

La delicatezza e l’originalità di Abloh hanno dato forma alle priorità della comunicazione

Attraverso siffatti passaggi l’idea – geniale o meno, originale o no, perché comunque gli echi di Walter Van Beirendonck persistono ma urlare alla copia, di nuovo, è cadere nel vecchio – è diventata concreta, senza dire che è solo attraverso questi processi di progetto che si può evitare di cadere nel generico. Il resto sono problemi del mondo ricco: la discrepanza tra valore e prezzo, la comunicazione e la percezione come moltiplicatori di valore, la sostanziale tendenza ad anteporre l’aura alla realtà dell’oggetto.

Fonte: Il Sole 24 Ore