
Ad Amsterdam, tra costumi libertari e grande Storia
Sembra di vederli, i ragazzi e le ragazze del ’66 che si radunano in piazza Spui, nel cuore di Amsterdam, attorno alla statua del Lieverdje (“tesoruccio” in italiano), un ragazzino di strada. Arrivano qui in sella alle biciclette rigorosamente bianche, il loro simbolo. Fumano marijuana, ballano, invocano diritti e libertà. È il Sessantotto due anni prima del Sessantotto perché qui, spesso, le cose accadono in anticipo.
Al tempo stesso, nella «città più anarchica dell’Olanda» (parole di Jan Brokken), a pochi passi dalla piazza dove si scatenavano i provos c’è un posto immerso nella quiete e nel silenzio (i responsabili della sicurezza intimano di non violarlo): è il complesso della Corte delle Beghine, risalente al XIV secolo, tanti edifici in circolo che ospitavano le donne dedite al volontariato e all’assistenza ai poveri, oggi destinati ad anziane e vedove che lì condividono le loro solitudini. C’è anche una chiesa protestante (tale dal 1578), di fronte alla quale ne “resisteva” una cattolica nascosta all’interno di una casa: una clandestinità che ci ricorda i turbolenti anni della Riforma.
Il passaggio dalla storia dei singoli alla Storia con la maiuscola è breve, ad Amsterdam. Dieci minuti e ci si ritrova alle spalle della casa di Anne Frank, lungo il Prinsengracht, nel quartiere Jordaan. Non era bastata l’azione di protesta degli olandesi, il 25 febbraio del ’41, contro il rastrellamento degli ebrei, uno sciopero generale organizzato dai comunisti (all’epoca già dichiarati fuori legge) che aveva fermato la città, la prima manifestazione di dissenso contro il nazismo in Europa. Non era bastata e la storia continuava il suo corso verso il precipizio, portandosi dietro Anne Frank che nel febbraio del 1945 muore nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. «Ogni volta che venivo qui, vedevo l’ippocastano che Anne riusciva a scorgere, assieme al campanile della Chiesa Vecchia, dal suo nascondiglio e di cui parla nel Diario. Ogni volta, osservando quell’albero, mi sentivo in colpa. A un certo punto la municipalità decise di abbatterlo, era ormai vecchio e malato, ma la popolazione in rivolta lo preservò facendo una raccolta e proteggendolo con una barriera di ferro, finché poi qualche anno fa un temporale non l’ha fatto cadere», racconta Jan Brokken, che di questa città conosce ogni pietra e fa della storia del Novecento il fulcro dei suoi libri.
Al terzo piano di una casa nera con i profili bianchi, stretta, ad angolo lungo il Brouwersgracht (un altro dei canali Patrimonio dell’Unesco dal 2010), sono appena cominciate le riprese di un film sul talento e la storia drammatica di chi ha vissuto lì poco più di dieci anni: il pianista Youri Egorov, dal 1976 in fuga dal regime sovietico. Ad Amsterdam non solo trova rifugio, ma può esprimere liberamente la sua arte e vivere la sua omosessualità. Chi passava da quelle parti, in primavera e in estate, poteva ascoltare dalle finestre aperte la musica che si librava dallo Steinwey di un grande interprete del repertorio romantico europeo. L’Aids lo porterà via a soli 33 anni, nel 1988.
Jan Brokken ha raccontato la sua vicenda in Nella casa del pianista (Iperborea, 2011) spiegando che cosa significhi nascere a Kazan (oggi capitale della Repubblica russa del Tatarstan), essere dissidente in quell’epoca, non poter suonare certa musica, vivere sentendosi soffocare, dunque non vivere. Brokken descrive la Amsterdam degli anni Ottanta, libera, forse meno turistica e “gentrificata”.
Fonte: Il Sole 24 Ore