Allarme dazi: la moda avvicina le filiere produttive
Tra il 2015 e il 2023 le barriere commerciali sono cresciute di cinque volte, con circa tremila restrizioni imposte solo nel 2023. I costi delle produzioni e della logistica sono aumentati anche in conseguenza della situazione geopolitica, con la guerra in Ucraina da un lato e quella a Gaza dall’altro, e questi incrementi hanno messo in difficoltà le aziende e i consumatori: tra dicembre 2023 e febbraio 2024, i costi di logistica per le spedizioni attraverso il Medio Oriente sono quintuplicati, e, per fare un esempio “a lungo raggio”, il costo di consegna tra Asia e Stati Uniti è cresciuto del 165 per cento. L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca per un secondo mandato porterà – stando a quanto più volte annunciato dal tycoon in campagna elettorale – a un aumento del 10-20% del prezzo su tutte le importazioni Usa e di una tariffa del 60% sulle merci provenienti dalla Cina. Un Paese, quest’ultimo, da cui le aziende della moda americana ed europea si stanno già affrancando in termini produttivi. Anche considerata la fragilità delle catene di fornitura sperimentata durante la pandemia. I dati arrivano dall’edizione 2025 del report The State of Fashion realizzato da McKinsey e Business of Fashion che offre una fotografia aggiornata della situazione in cui versa la moda mondiale. Il 2025 sarà un anno turbolento, che si concluderà con un incremento dei ricavi low single digit (entro il 5%) in leggero miglioramento rispetto al 2024 e, soprattutto, per la prima volta negli ultimi 14 anni non vedrà il lusso contribuire alla crescita dei profitti del settore, che saranno trainati dal segmento non luxury.
Cos’è il neaeshoring e perché era già in corso
In questo contesto il tema del nearshoring è già tra le priorità dell’industria e lo sarà sempre di più. Per ragioni commerciali e anche di sostenibilità. C’è poi il tema del reshoring, cioè del riportare la produzione in patria, seppure più complesso sia sul fronte costi sia su quello delle capacità produttive, alcune delle quali sono state perse. «Ci sarà un’amplificazione di tutti questi dati – ha spiegato Gemma D’Auria, senior partner McKinsey, responsabile globale Apparel, Fashion e Luxury -. In Europa e in Italia sarà importante capire che il tessile-moda è un settore nel quale dovremmo distinguerci a livello mondiale non solo nell’alto di gamma, ma a più livelli: in un mondo in cui le supply chain sono molto fragili e il made in Italy conta, possiamo lavorare anche nel segmento medio».
Europa e Usa sempre meno dipendenti dalla Cina
Il processo di nearshoring, ad ogni modo, è già in atto: secondo The State of Fashion 2025, tra il 2019 e il 2023 la quota di prodotti tessili e di abbigliamento provenienti dalla Cina è calata del 6% in Usa e del 3% in Europa ed entro il 2030 si arriverà a un -10% negli Stati Uniti e un -8% in Europa. A crescere, sempre da qui a cinque anni, saranno i mercati interessati da queste pratiche: Messico (che nel 2023 è diventato il primo partner commerciale degli Stati Uniti), Canada e America Latina per gli Usa; paesi del Nord Africa ed Europa dell’Est/Ovest per la Ue. A crescere è stata anche la quota di investimenti diretti esteri nel settore manifatturiero dell’abbigliamento: nel periodo 2020-24 è salita del 20% per gli Usa – dove un aumento ulteriore potrebbe essere spinto dai 14 miliardi di dollari di fondi dell’Americas Act – e dell’8% in Europa. Gli Usa si approvvigionano sempre di più in America Latina (il 65% delle aziende contro il 40% del 2020) dal Messico al Guatemala, dove hanno investito aziende come Columbia, mentre in Europa il grande produttore è la Turchia, dove si fornisce anche Shein.
Executive poco ottimisti, temono gli effetti dell’instabilità geopolitica
Secondo la ricerca, che interpella anche gli executive sul futuro della moda, i fattori di rischio per il settore sono due: la mancanza di fiducia da parte dei consumatori (70%), e quindi di volontà di fare acquisti, e l’instabilità geopolitica (67%) che continua ad avere un ruolo importante anche nel suo impatto sulla fiducia dei consumatori. Nel complesso, l’80% dei manager intervistati da McKinsey e Bof non vede possibili miglioramenti in corso d’anno. «In questo momento in cui il settore fa fatica a crescere, tanti brand stanno cercando di capire cosa fare – chiosa Gemma D’Auria – bisogna vincere nella market share, ma anche nella “mind share” aumentando il focus sulla differenziazione, nell’esperienza e nel prodotto, ma anche sull’innovazione».
Fonte: Il Sole 24 Ore