Allarme rifiuti tessili: in Europa quelli riciclati sono meno di un terzo
Il termine usato nel report di Ambienta è forte ed evocativo: roadblock, masso che, letteralmente, blocca la strada. Il riferimento è al “Greenwashing in Fashion” – questo il titolo dello studio curato da Federica Mallone e Fabio Ranghino, rispettivamente manager e partner della società di investimento, che ha interessi in diversi settori, un portafoglio di tre miliardi di euro e una stella polare, la sostenibilità ambientale. Secondo lo studio sarebbe proprio la pratica del “darsi una lavata di verde” (il neologismo inglese, ancora una volta, rende assai meglio l’idea) a bloccare la strada che porti a un’autentica sostenibilità dell’industria del tessile-moda.
I dati sono noti e preoccupanti: i rifiuti tessili annuali hanno raggiunto, a livello globale, circa i 92 milioni di tonnellate, equivalente al peso di circa 65 milioni di autovetture, si legge nello studio di Ambienta. I tessuti possono impiegare fino a 200 anni per decomporsi (ovviamente dipende dal tipo di tessuto) e con la diminuzione della qualità dei prodotti, anche la longevità degli indumenti diminuisce: molti capi vengono indossati meno di dieci volte prima di essere smaltiti.
In assenza di una svolta circolare, il 60% dei rifiuti tessili finisce direttamente in discarica o incenerito e la raccolta differenziata attualmente rappresenta solo il 40% circa del flusso totale di rifiuti tessili in Europa. Anche se, grazie all’impegno di associazioni di settore come Confindustria Moda e Sistema moda Italia, ci sono molti progetti di raccolta finalizzata all’upcycling. A oggi però solo il 34% della raccolta differenziata rimane in Europa: la maggior parte (il restante 66%) viene spedita all’estero con scarsa tracciabilità.
In definitiva, solo il 27% del totale dei rifiuti tessili europei viene riutilizzato o riciclato. Nel suo complesso (bisognerebbe ovviamente distinguere tra fast e ultra fast fashion e lusso), l’industria della moda è trainata dai volumi, anche se ci sono stilisti – tra i quali la pioniera e compianta Vivienne Westwood – che hanno coniato slogan come “buy less, buy better”. La realtà però – come sottolinea il report di Ambienta – è che all’aumento globale del numero di capi acquistati per persona, sta diminuendo il prezzo medio per articolo (-16% nel periodo 2013-2023), una tendenza in essere già prima che operatori del fast fashion online come Asos, Bohoo e più recentemente i cinesi di Shein entrassero nel mercato con prezzi ancora più bassi.
Esistono tuttavia catalizzatori per il cambiamento che potrebbero sostenere la transizione, almeno nei Paesi occidentali o comunque in quelli con un sistema di regole più avanzato. Tra i fattori positivi, Ambienta cita infatti normativa, consapevolezza dei consumatori (il mercato globale dell’usato ha raggiunto il 12% del mercato totale nel 2023 e si prevede che crescerà a un Cagr del 22% nel periodo 2021-2024) e iniziative di rivendita dei brand: i marchi con programmi di rivendita (c’è chi preferisce usare il termine preloved) sono passati da 5 nel 2019 a 124 nel 2022 e contribuiscono a ridurre le emissioni di circa il 25% e il consumo di acqua di circa il 30% rispetto all’acquisto di un nuovo capo.
Fonte: Il Sole 24 Ore