«All’Europa serve una politica industriale per la competitività»

«All’Europa serve una politica industriale per la competitività»

I dazi Usa sono un problema legato al breve periodo, la vera questione per l’Europa è dotarsi di una politica industriale all’altezza del momento, capace di difendere la competitività. Ne è convinto, Roberto Prioreschi, regional managing partner per l’Europa meridionale e il Medio Oriente di Bain&Co.

C’è molta preoccupazione per le politiche dell’Amministrazione Trump. Condivide?

In parte. Rispetto a Canada e Messico sembra che si stia andando verso una trattativa. Bisogna capire cosa l’Europa può offrire in una potenziale negoziazione. Secondo le nostre stime, i principali settori che potrebbero essere colpiti da dazi sono l’automotive, il manifatturiero e l’agroalimentare, con una perdita potenziale che si aggira attorno all’1%-1,5% del Pil europeo se ipotizziamo dazi del 10%. Ma, sottolineo, siamo nel campo delle ipotesi. Fino a che non sapremo se e come verranno varati i dazi, non avremo una stima precisa. E comunque, impatterà in modo significativo l’evoluzione del tasso di cambio euro-dollaro. Al netto di questo, serve una politica industriale europea che sia focalizzata sulla difesa della competitività, nello scenario post-globalizzato. I dazi sono un problema collegato al breve periodo, ma la questione di lungo periodo è: che ne sarà dell’Europa, se non c’è una politica industriale all’altezza dei tempi?

In Europa la crisi colpisce soprattutto i Paesi manifatturieri, come Italia e Germania. Spagna e Portogallo, che sono più orientati sui servizi, crescono a buon ritmo. C’è qualcosa che si può copiare?

I trend di crescita di Spagna, Portogallo e anche Grecia sono prevalentemente collegati alla crescita della domanda interna. Spingere su domanda interna e servizi può avere senso, nella misura in cui sia fatto in maniera corretta. La spesa pubblica a pioggia non risolve i grandi problemi. Invece, l’esperienza del Covid ci ha mostrato che l’infrastruttura medico-sanitaria è sicuramente un’area sulla quale si può investire in maniera pesante. Poi ci sono le infrastrutture strategiche, vale a dire energia, telecomunicazioni e viabilità. In questi ambiti, una spinta più focalizzata può rappresentare un elemento di crescita che va oltre il rendimento dell’investimento nello specifico asset e genera un indotto positivo, con creazione di posti di lavoro e filiere economiche, che sono strategiche e che possono alimentare la crescita di un Paese già nel breve o medio periodo.

Un’altra sfida è la demografia: con la popolazione che in Europa diminuisce, gestire l’immigrazione è una scelta oppure è necessità economica?

È una necessità per una serie di motivi. L’invecchiamento della popolazione riguarda tutto il continente e la popolazione occupata ha un’età media sempre più alta. Anche perché le politiche di agevolazione all’uscita dal mondo del lavoro si scontrano con le esigenze di finanza pubblica. E questo è un primo elemento per cui la rotazione deve essere facilitata, in un Paese o in un’area a crescita zero o quasi, anche dall’arrivo di persone da altri Paesi. Le discussioni che molti Governi affrontano sulle politiche per la natalità sono interessanti, ma riguardano i prossimi 25 anni. E nel frattempo? Già oggi gli immigrati in Europa contribuiscono alla formazione di circa il 10-15% del Pil. Il punto critico è riuscire a integrare queste persone. E quindi di nuovo torniamo nella logica delle politiche sociali di accoglienza e di integrazione che sono ancora una un’equazione irrisolta.

Fonte: Il Sole 24 Ore