Alto Adige Doc, più valore a vini (e vigneti) con le zone di produzione in etichetta
Ci sarà anche un pittogramma ben riconoscibile sulle bottiglie delle cantine che indicheranno le “sottozone di produzione” (o più precisamente le Uga, Unità geografiche aggiuntive) riconosciute dal nuovo disciplinare della Doc Alto Adige, operativo dalla vendemmia del 2024 dopo anni di (complicata) gestazione. Sembra un dettaglio, ma pare non sia stato così facile convincere la commissione ministeriale dell’importanza dell’introduzione di questo elemento grafico, che rende facilmente distinguibili le nuove bottiglie dalle altre della stessa Doc. Un dettaglio, forse, ma che fa capire quanto siano cruciali le etichette in ambito vinicolo, Basti pensare anche all’annoso dibattito sulla possibilità di introdurre obblighi di avvisi “salutistici”, sul modello di quanto fatto con le sigarette.
In una accezione di segno completamente differente, volta a comunicare con precisione l’espressione della più alta qualità vitivinicola di un territorio, va letta la scelta di poter indicare specifiche sottozone di produzione all’interno delle Doc. Le Uga altoatesine si distinguono da quelle di altri consorzi perché “incrociano” le singole “microzone” (sono ben 86 su un territorio che copre solo l’1% della superfice vitata italiana) con la ventina di vitigni tradizionalmente coltivati nell’area.
Così ogni Uga – per esempio Gries, Mazon, Eppan Berg o Brenntal, per citare solo alcune tra le più note – può essere utilizzata per cinque tipi di vitigno (con una resa inferiore de 25% rispetto al resto della Doc), anche se in alcune di queste ci saranno solo uno o due tipi ammessi. Si potranno comunque continuare a coltivare anche gli altri vitigni, ma non potranno vantare l’Uga in etichetta. «Per definire le aree omogenee, sono stati valutati dati relativi al microclima, all’irraggiamento solare, all’ombreggiatura, all’altitudine e alle peculiarità del terreno. Sono state formate commissioni composte da agronomi, enologi, viticoltori, produttori ed esperti di storia della viticoltura, a cui è stato assegnato il compito di decidere quali fossero i vitigni più adatti alle varie parcelle», ha affermato il presidente del Consorzio Vini Alto Adige (e della Cantina Kurtatsch), Andreas Kofler.
«Grazie al Catasto Teresiano della metà del XVIII secolo siamo risaliti ai nomi storicamente attribuiti alle zone di coltivazione. Ma il terroir non deve essere solo un concetto per il marketing, deve essere riconoscibile anche nel bicchiere», aggiunge Martin Foradori, vicepresidente del Consorzio nonché titolare della Tenuta J. Hofstätter. Una cantina che già nel 1987 produceva il Pinot Nero Sant’Urbano che riportava in etichetta il nome della singola vigna da cui nasceva il vino. E che dalla vendemmia 2024 riporterà anche le Uga in alcuni dei suoi vini più prestigiosi.
Difficile dire quanto impatterà questo cambiamento sul valore delle bottiglie, nel contesto di una denominazione che genera un giro d’affari di 350 milioni, con un valore aggiunto alla bottiglia mediamente più alto rispetto al resto d’Italia.
«I vini dovrebbero subire un sostanziale miglioramento qualitativo e, di conseguenza, anche un aumento in termini di prezzo. Questa è la teoria, la pratica ci svelerà poi come reagirà il mercato – dice Martin Foradori, che con la sua cantina produce 850mila bottiglie all’anno che generano un fatturato di circa 10 milioni –. Se il vino di una Uga ha caratteristiche qualitative migliori rispetto a un vigneto non compreso in una Uga, allora anche il consumatore sarà disposto a spendere di più. Ma un grande vino non nasce dall’oggi al domani solo perché dei gruppi di lavoro hanno delineato aree geografiche e vigneti classificati». Anche per l’eventuale effetto sul valore dei terreni, che in Alto Adige sono già tra i più costosi d’Italia, occorrerà aspettare: «Rispetto ad analoghe classificazioni francesi siamo indietro di secoli», ricorda Foradori.
Fonte: Il Sole 24 Ore