Alzheimer senza tregua: in Italia 1,5 milioni di pazienti verso il raddoppio nel 2050 e costi lievitati per le famiglie

Più della metà dei pazienti (ma si arriva al 60% al Sud dove anche per le demenze svetta lo svantaggio del Meridione) non ha mai effettuato una visita presso un Cdcd, uno dei Centri per i disturbi cognitivi e le demenze eredi delle gloriose Uva (Unità di valutazione Alzheimer): esperienza di successo ma dismessa, dove si era arrivati a sfiorare il 70% di assistiti nel 2006. La quota di pazienti che ha ricevuto una diagnosi in un Cdcd – dove si ottiene il piano terapeutico per accedere a farmaci specifici per l’Alzheimer – si ferma ancora oggi al 27,9% e anche qui il gap geografico è impietoso, con il 46,8% dei pazienti al Nord e il 20% nelle altre aree del Paese. I tempi di diagnosi sono un altro tallone d’Achille: risalgono a due anni dall’1,8 anni registrati nel 2015, anche se in miglioramento dai 2,5 anni del 1999 e del 2006.

Il nodo caregiving

Il quadro nei 25 anni trascorsi dalla prima indagine Censis-Aima appare poco o per nulla mutato per chi, soprattutto familiari e soprattutto donne, si prende cura quotidianamente di un paziente con Alzheimer. Gap territoriali, una rete di servizi ancora poco diffusa e un’assistenza domiciliare insufficiente che impone il ricorso a badanti, fanno dichiarare a 7 caregiver su dieci di sentirsi soli. Con il 40% che ammette difficoltà nel seguire la propria famiglia, il coniuge e i figli per stare accanto al malato. La pandemia ha impattato: per due terzi degli intervistati l’isolamento si è acuito peggiorando sia la loro solitudine sia le condizioni della persona cara ammalata. Non stupisce quindi che appena il 36,2% dei caregiver promuovano l’assistenza pubblica, con percentuali che ancora una volta oscillano dal 23% del Sud al 48,6% del Nord.

Se è vero che l’89,2% dei caregiver nell’indagine Censis-Aima afferma di poter contare su un punto di riferimento unico, la novità è il moltiplicarsi delle risposte: il 17,2% indica il medico di famiglia, il 15% lo specialista privato e il Cdcd mentre solo il 7,2% – dal 35,6% del 2015 – indica l’ambulatorio della Asl.

E allora, le richieste dei caregiver sono per una tutela giuridica a livello nazionale – di cui si parla da anni ma su cui si sta ancora lavorando – che si traduca anche in una possibile retribuzione del lavoro di cura e in corsi di formazione. E nell’avvio, finalmente, di una rete si servizi ampia e presente in tutte le fasi della malattia, affiancata da una rete adeguata di supporto a domicilio.

La sfida: identificare precocemente la malattia per cambiarne il corso

L’identificazione nella popolazione di oltre 60 anni di persone con disturbo cognitivo lieve in fase prodromica di demenza o di quelle persone che, pur essendo ancora sostanzialmente sane, hanno un elevatissimo rischio di sviluppare demenza, rappresenta una delle urgenze maggiori in tema di politiche sanitarie. A spiegarlo è Paolo Maria Rossini, responsabile del Dipartimento di Neuroscienze dell’Irccs San Raffaele di Roma: “Si tratta – afferma – di soggetti di fatto già ammalati di una forma molto iniziale di malattia, ma che ignorano di esserlo e che sono ancora perfettamente performanti nelle attività del vivere quotidiano, professionale, sociale e affettivo: con l’aiuto di biomarcatori di vario tipo e dell’intelligenza artificiale i medici stanno mettendo a punto metodi per scovare per tempo questi individui, prima cioè che manifestino i sintomi irreversibili e progressivi della patologia. Questo potrebbe cambiare il corso delle cure, una volta che si rendessero disponibili dei nuovi farmaci contro l’Alzheimer, la forma più diffusa di demenza, ed anche permettere un intervento mirato e precocissimo con i farmaci oggi disponibili e sui fattori di rischio/protezione che sono già noti”. Una fida cruciale: “Arrivare prima – sottolinea Rossini – significa intervenire su uno scenario in cui molta parte della ‘riserva neurale’, cioè di quella dote di neuroni e di sinapsi che ognuno di noi possiede e a cui si può attingere per vicariare almeno in parte la funzione svolta da neuroni e sinapsi distrutti dalla malattia, è ancora disponibile e quindi ottenere risultati decisamente superiori nella cura non solo dei sintomi, ma della evoluzione della malattia”.

Fonte: Il Sole 24 Ore