Anni e Josef Albers, modernisti per sempre
Due cuori e una capanna. No: due cuori e molta arte, intelligenza, capacità di trasmettere sapienza e di oltrepassare le barriere della geografia, del tempo (spesso infausto), delle assegnazioni di genere e degli stereotipi sociali che abbiamo in testa, come un maledetto muro. Anni & Josef: un duo formidabile, e inscindibile, che esplode, in tutta la sua potenza, la vibrante emozione, la complessità di un rigore artistico a tratti insuperabile, in una mostra che è non solo un evento (è raro vederli riuniti in una medesima galleria e di queste dimensioni, poi) ma una sequela di nostalgie, ricordi, spiegazioni e insondabili misteri dell’arte e dell’amore.
Gli Albers: a Parigi (fino al 9 gennaio al Musée d’Art Moderne) non potevano scegliere un titolo migliore e più azzeccato di “L’arte e la vita”.Esiste un quadro, “Equal and Unequal” (1939) che Nicolas Fox Weber, massimo conoscitore e direttore della Fondazione Albers a Bethany nel Connecticut, ha eletto a icona della sua magnifica narrazione in una biografia eccezionale sulla coppia uscita a fine 2020 da Phaidon (pagg. 520, E 120). In quel quadro, che i due tennero sempre nel loro soggiorno è simbolizzato il loro rapporto: indipendenti e interdipendenti, come diceva Josef per descriverli. Interessi e viaggi, amicizie e incontri, lezioni e passioni, sempre cementando la loro unione con una parola che, entrambi, usavano spesso, nelle interviste per qualificare il legame: “rispetto”.
Bauhaus
Qui, nelle oltre 350 opere radunate in questo profluvio di quadri, tessiture, mobili, fotografie, design, gioielli, sperimentazioni geometriche, opere di interesse religioso, filmati di lezioni, appunti sparsi, lettere, citazioni, appunti e molto altro ancora, la curatrice Julia Garimorth, con la sapiente regia di Nicholas Fox Weber, hanno saputo restituire la complessità degli interessi e dei riverberi nella vita dei due artisti che le attrazioni e le infatuazioni momentanee e durature hanno avuto su di loro. Ovviamente, c’è tutto di loro. Il loro incontro: nell’ambito del Bauhaus, dove Anni dovette fare domanda di ingresso per due volte, perché fallì il primo esame di ammissione. Lui, Josef, figlio di una modesta famiglia di artigiani di Bottrop, un paesino minerario che Anni non aveva mai sentito nominare (né ci volle mai mettere piede, finché Josef fu in vita), lei una bella ragazza contro le mode, figlia di una agiata famiglia ebrea, cresciuta nella cosmopolita Berlino. Quell’idillio, nato nei giardini, nelle aule e nelle case del Bauhaus non sarebbe mai venuto meno: Anni e Josef hanno coltivato i loro valori con tenacia e gioia. Così, se una sezione significativa è dedicata ai loro viaggi in Messico, tappa fondamentale della loro vita e unione (con foto e una collezione di arte precolombiana di tutto rispetto), dall’altra ci sono i rispettivi interessi: Josef e la sua teoria dell’interazione del colore (con gli oltre 2000 quadri, “Omaggio al quadrato”; qui ce ne sono un numero sufficiente a dare un’idea ma certamente meno di cento), Anni con la sua superba opera e teoria della tessitura che culmina in un’opera di commovente profondità: i sei pannelli, tessiture pittoriche, che le vennero commissionate nel 1965 da Jewish Museum di New York, per onorare la memoria dei sei milioni di ebrei morti nella Shoah.
Nel silenzio della mostra, quasi separati dal resto, questi pannelli tessuti sono un contatto con il divino, con il dolore, con la frustrazione e l’angoscia della Storia che solo chi aveva vissuto la tragedia di essere tedesco e contrario al nazismo poteva avvertire con l’insopportabile peso della colpa collettiva.E forse merita una sosta ulteriore, anche se ci è capitato di vederli già altre volte, riprodotti in libri e in altre mostre, quella magia sospesa che sono gli omaggi al quadrato di Josef. Una forma semplice e inequivocabile a non disturbare il resto: una immersione nel mondo del colore puro, per dimostrare che esso non esiste ma lo si dà solo in relazione a ciò che lo circonda, una potente metafora, tra l’altro della nostra stessa identità. Così il colore diventa l’elemento più instabile dell’arte: spremuto direttamente dal tubetto, avendo previsto ogni singola vicinanza, spalmato con la paletta sulla masonite, quel colore, quelle interazioni di colore sono altrettante interviste alla nostra percezione, alla nostra radice, alla nostra impossibile purezza.Nell’allestimento addirittura strabordante della mostra parigina (che poi si trasferirà a Valencia, da febbraio a giugno 2022), la loro vicenda è ripercorsa con dovizia di particolari e, naturalmente, con molti pezzi mozzafiato.
Modernismo
L’aria che si respira è quella di un modernismo non solo attuale, ma addirittura futuro. Gli intrecci, i nodi, i labirinti, tutti temi che intersecano la loro carriera artistica tornano e si moltiplicano nelle iridescenze delle opere alle pareti e nelle teche: davvero era il caso di predisporre una mostra “collettiva” di quella particolare setta che ebbe due e solo due adepti per sempre, Anni e Josef.Al muro, di tanto in tanto, alcune frasi scandiscono il viaggio del visitatore nel loro universo. Dice Anni: “Impariamo il coraggio dall’opera d’arte. Dobbiamo esplorare luoghi ove prima di noi nessuno è stato”. Le risponde Josef, profetico, apologetico e di eterna attualità: “Imparate a vedere e sentire la vita; vale a dire, coltivate l’immaginazione, poiché nel mondo vi sono sempre delle meraviglie, perché la vita è un mistero e sempre lo sarà. Siatene consapevoli.”
Fonte: Il Sole 24 Ore