Antonio Marras: «L’irrequietezza è la fonte della mia creatività»

Antonio Marras: «L’irrequietezza è la fonte della mia creatività»

I capi e gli accessori che ha disegnato dal 1988 a oggi saranno migliaia. Eppure, ne manca uno: «Devo assolutamente fare una T-shirt con scritto “Mai cuntentu”, mai contento. Mia madre me lo diceva sempre. Io sono così, vivo la mia condizione di irrequietezza, non sono mai soddisfatto, cerco altro. È molto bello, ma anche doloroso, soprattutto per gli altri». Dal tavolo di un ristorante a via Margutta, proprio la via romana degli artisti che l’ha accolto quando preparò la sua prima sfilata per AltaRoma 35 anni fa, Antonio Marras fa correre lo sguardo su chi entra in sala, esaminandone fugacemente l’umanità, curioso come un etnografo, per poi richiamarlo. Eppure contento, in fondo, lo è: dopo anni di indipendenza fiera, ma a tratti complicata, lo scorso settembre ha venduto l’80% delle quote della sua azienda a Sandro Veronesi, fondatore e presidente del gruppo Calzedonia, colosso da 3 miliardi. «Ora potrò finalmente dedicarmi solo alla parte creativa», commentò in quell’occasione, con Veronesi che su queste pagine sottolineava «è arrivato il momento, anche per lui, di fare il grande salto».

«Nel tempo c’erano state altre manifestazioni di interesse per l’azienda – spiega –. Abbiamo avuto un fondo inglese in casa per un anno e mezzo, è stato un disastro. Con Veronesi, invece, nel giro di un mese abbiamo chiuso tutto. Ci siamo trovati nelle nostre case, io sono sardo, lui è veneto, ci siamo aperti poco a poco in spazi che per noi sono sacri, questo mi ha molto colpito. Abbiamo parlato entrambi con i nostri figli. I nostri mondi erano agli antipodi, ma lui è stato incuriosito dal mio, dandomi fiducia. Un approccio molto bello e molto raro, perché di solito la logica in queste cose è quella di entrare a gamba tesa». Sulla sedia accanto alle nostre ci sono le sue borse da viaggio, perché Marras sta seguendo le aperture dei prossimi negozi che si avvicendano veloci secondo il piano per «il grande salto»: «Sto girando come un commesso viaggiatore», sorride. A Roma si sta preparando una nuova, più grande location, poi Firenze, Forte dei Marmi, la sua Alghero, Venezia, Milano. «Ora mi sento doppiamente responsabile di quello che sto facendo, per continuare a condividere la nostra visione», dice.

La visione che ha conquistato Veronesi è frutto proprio di questo peculiare sguardo di Marras sulle cose, sugli spazi, sulle persone, dove le dimensioni temporali si fondono e perdono i loro confini. Nei nuovi negozi, per esempio, molto resta vecchio: «Sono quasi perverso nel volerli seguire uno a uno. Vanno svuotati, certo, ma io recupero tutto quello che posso, anche ciò che si trova dietro il cartongesso. Non solo i macchinari, ma anche le scritte lasciate dai muratori». Nel suo fantasmagorico negozio di Milano, chiamato Nonostante Marras, si colgono gli echi della vita precedente dello spazio come officina di un elettrauto. E ovunque ci sono tracce dell’artigianato artistico della sua Sardegna, frutto delle mani dei “maistos”, i maestri: «Sono a rischio di essere schiacciati, io cerco di coinvolgerli, valorizzarli, ne hanno un enorme bisogno». Chissà, un giorno qualcuno potrebbe dar vita a un polo dell’alto artigianato italiano, una rete non tanto di marchi, ma di storie e culture a rischio estinzione. Che possano legarsi e contaminarsi, come gli oggetti curiosi provenienti da tutto il mondo conservati in un magazzino di Buccinasco da Elio Fiorucci, che un giovane Marras vide durante un viaggio in cui accompagnava il padre, proprietario di una boutique ad Alghero. Quella mescolanza spazio-temporale fu una sorta di imprinting, cellula creativa di una libertà propria dell’artista più che del mero stilista, alimentata poi dal cruciale incontro con una «vera», artista, Maria Lai: «Maria mi ha permesso di far uscire tutto quello che avevo nei miei cassetti ma che avevo vergogna di tirar fuori. È stato grazie a lei che ho iniziato per esempio a fare ceramiche, trasformando la mia passione di bambino di giocare per ore con il fango». Antonio Marras era nato una seconda volta, nella sua versione più autentica, e questa epifania attirò anche il gigante del lusso Lvmh, che esattamente vent’anni fa lo chiamò alla guida creativa di Kenzo. Lo volle Concetta Carestia Lanciaux, la manager italiana all’epoca braccio destro di Bernard Arnault, che per l’occasione disse di Marras: «Se fosse stato in Francia lo avrebbero messo sul palcoscenico già da tempo, mentre in Italia era quasi un fenomeno locale». «Quando sono arrivato nei negozi c’erano mensole impolverate, lampadine fulminate, non ci entrava nessuno. Sono stato bene, ma devi essere bravo a tenere i piedi solidamente per terra. Per Lvmh lo stilista è il createur, il creatore, una figura quasi divina. Io sono rimasto lì otto anni, un periodo lunghissimo soprattutto se paragonato a oggi». Il riferimento è alla folle giostra di abbandoni, licenziamenti e nuove nomine alla quale negli ultimi anni assomigliano gli uffici stile di molti grandi marchi: «C’è una regola fondamentale in questo mondo: se il marchio funziona, sono bravi tutti. Se non funziona, la colpa è del direttore creativo. Io forse sarei potuto rimanere, ripensandoci. Però, come è andata dopo di me? Hanno chiamato due direttori creativi (Carol Lim e Humberto Leon, ndr) che hanno iniziato a fare solo felpe con il ricamo di una tigre, vendendole a 120 euro, quando io con 120 euro compravo un bottone. Dopo due anni, fuori. Poi è arrivato Felipe Oliveira Baptista, da Lacoste, secondo me bravissimo. Due collezioni e fuori anche lui. Ripeto, devi essere molto solido per poter sopravvivere». E anche Marras, pur se nel suo incessante peregrinare fisico e mentale, ha un solido punto fermo. «Sono nato in un’isola, in mezzo al mare, ma il mare non isola. È un mezzo per andare oltre, esplorare l’altrove. L’approdo a una terra altra, che sia già nota oppure un ritorno, è un’altra tappa. Come dice Francesca Alfano Miglietti (artista e critica d’arte, altra presenza importante nel percorso di Marras, ndr) «io non ho un posto dove stare», sono in continua transumanza. Quando sono a Milano non ho nostalgia di Alghero, e viceversa. Gli oggetti, i colori, le luci delle nostre case sono gli stessi. Siamo un popolo di navigatori, migranti ed emigranti, e quando ci spostiamo proviamo a ricostruire le nostre radici. L’habitat diventa abito, ti avvolge, è mezzo di comunicazione con gli altri. E la Sardegna, con la sua storia straordinaria di popoli che per millenni l’hanno bramata e abitata, è un amalgama di ingredienti che hanno lievitato e hanno generato noi».

Nelle collezioni di Marras la Sardegna non è mai unica, perché non può esserlo. Ed è per questo che in 35 anni non ha mai sfiorato lo stereotipo. Lo scorso febbraio, primo evento dopo l’annuncio di Calzedonia, è stata il premio Nobel Grazia Deledda a ispirare la collezione con cui Marras è tornato a sfilare a Milano (Deledda che peraltro consigliava all’amica Amelie Posse di andare proprio ad Alghero per conoscere il volto migliore della Sardegna). Di recente, i blu di Caprera hanno plasmato la collezione Resort 2024. Prima, le collezioni si sono mosse nell’inquietante foresta bruciata di Santu Lussurgiu e fra la vegetazione ricca e silenziosa di Badde Salighes, sfiorando la dimenticata e tragica storia della principessa etiope Romanework Selassié, esiliata all’Asinara negli anni del fascismo, e quella del padre di Amedeo Modigliani, ingegnere che visse con i minatori del Sulcis. Ancora, incontri con il Giappone, l’Africa, la poesia di Rimbaud e la musica soul. Perché la memoria non deve essere mai statica, musealizzata.

Si percepisce nello svolazzare delle 200 camicie da notte nel cielo delle Rampe del Salvatore a Napoli, strada riaperta e donata alla città dopo 50 anni: è l’installazione Questi miei fantasmi, firmata da Marras e inaugurata a fine giugno per Napoli Contemporanea, dove indumenti del primo Novecento ricamati da allievi dell’Accademia di Belle Arti sono illuminati da lanterne fatte con tessuti dell’archivio dell’artista. «I segni, i solchi, le intersezioni, mi piace frugarli, vedere cosa c’è sotto, interpretarli per poi immaginare il futuro». A proposito, potrà mai Marras divertirsi con il metaverso o l’intelligenza artificiale, strumenti che secondo McKinsey nei prossimi anni potrebbero far crescere gli utili dell’industria della moda e del lusso fra i 150 e i 275 miliardi? «Dico solo che io ho un pc, lo stesso da vent’anni, e lo accendo esclusivamente per ascoltare musica. Non invio mail, non sono sui social, mi prendo soltanto cura del mio account Instagram, per trovare ispirazione dalle immagini. Però alla fine salvo sempre e solo foto del passato. Lo so, è una malattia». Questa anatomia dell’irrequietezza, che lo avrebbe reso il migliore amico di Bruce Chatwin, è plasticamente visibile in un taccuino traboccante di idee e appunti come un portagioie (la marca è Astier de Villatte, con carta tenace e vellutata). «Nulla dies sine linea», la frase di Apelle (riportata da Plinio) è stata opportunamente scelta come titolo della mostra che la Triennale di Milano gli ha dedicato nel 2016. Ma lo spazio per altri progetti non si esaurisce, seguendo la sua peculiare fisica: «Mi piacerebbe girare un film, trovo quelli di Tom Ford perfetti. Poi curare una regia teatrale, non disegnare solo i costumi. Ancora, dedicarmi al design di interni, di un ristorante, un hotel, delle case». «Chiamavamo noi stessi s’ard, che nell’antica lingua significa danzatori delle stelle… Passavamo sulla terra leggeri come acqua», ha scritto Sergio Atzeni. Prima di rimettersi in viaggio con il resto del corpo, lo sguardo di Marras continua a danzare nella sala, come un esploratore leggero e preciso. I prossimi treni, quello che si muove sui binari e quello che si sposta in testa, stanno per partire.

Fonte: Il Sole 24 Ore