Appena prima dell’ultimo accordo – Il Sole 24 ORE

non fossero esistiti Tugnitt, crucchi o poilu. Solo uomini.

Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter rimanere sospeso, come una frase tra una

virgola e un punto, in mezzo alle flebili fiamme dei lumi in quella cieca notte. Ma il fronte occidentale era lontano, e un altro inverno era passato.

Monte Cengio, 25 dicembre 1916

Cara mamma,

qui niente di nuovo. Non vi preoccupate per me. Sto bene.

Salutatemi i ragazzi e dite a Giovanni di non toccare la mia roba, che torno presto

e non voglio che manchi niente.

Buon Natale.

Vi amo,

Michele

Gennaio

Neve.

Il dirupo sembrava quasi essersi fatto meno scosceso. Una distesa bianca ricopriva ogni centimetro della montagna, addolcendo i duri strapiombi, nascondendo la nuda roccia. Una candida coperta aveva seppellito il loro letto di morte.

L’acqua gli arrivava ormai fino alle ginocchia. Aveva provato ad arrotolarsi i calzoni, cercando in tutti i modi di sfuggire alla gelida morsa dell’inverno. All’ora di pranzo il sole, beffardo, faceva capolino da dietro il monte sciogliendo la neve.

Così il momentaneo tepore sulla pelle era rapidamente annientato da un freddo

che gli bloccava le gambe, impedendogli di camminare. Se non se li fosse visti,

tremanti al di sotto della superficie increspata, non avrebbe avuto difficoltà a

credere di non avere più i piedi.

Lo scroscio del ruscello dentro la montagna era l’unico ricordo di casa, insieme

al medaglione che stringeva tra le dita. Dietro alla fattoria c’era uno stagno, color smeraldo come gli occhi della ragazza che gli sorrideva da quella fotografia un po’ sgualcita. In mezzo a tutto quel bianco accecante il verde poteva solo immaginarlo, cercando di riempire con la memoria la triste immagine in bianco e nero, che nel frattempo si era avvicinato al petto per sentirla più vicina.

M’ama, non m’ama. M’ama, non m’ama. M’ama.

Lui e Agnese si sedevano sempre ai piedi del salice. Lui cercava di districarle la

chioma dorata mentre lei, corrucciata, si dipingeva sul volto una smorfia divertita.

Si stringevano l’uno all’altra, respiravano insieme. I loro toraci si alzavano e si

abbassavano complementari, i loro cuori correvano la stessa maratona. Osservavano le foglie galleggiare placide sulla superficie.

M’ama, non m’ama. M’ama, non m’ama. M’ama.

Qualcosa gli sfiorò la gamba. Il pallido ricordo di Agnese si disperse nel vento,

quasi come se non fosse mai esistito. Quello che galleggiava nel fango non era

una foglia, ma un corpicino senza vita, un ammasso di pelliccia bagnata. Un altro ratto. Nelle gallerie ce n’erano a migliaia. I loro squittii erano spesso l’unica voce amica nel tacere addormentato della valle. Non era il primo che intravedeva a muso in giù in un misto di neve, terra e sangue. Gli ricordava il ragazzo che aveva ucciso. L’aveva visto crollare, abbandonarsi alla terra. Aveva visto i suoi occhi sbarrarsi e il suo volto scomparire dietro un masso.

Il ratto aveva gli occhi spalancati, neri e lucenti come minuscoli scarafaggi. Il

moncone della coda non lasciava dubbi: Timmy. Il topolino con cui uno dei suoi

compagni, quello che dopo l’ultima battaglia aveva perso un orecchio, condivideva le briciole di pane.

Un conato di vomito lo scosse, mentre il grido disperato del soldato in parte a lui gli pervase le orecchie.

È solo uno stupido topo.

Le sue parole rimasero a mezz’aria, sospese in una nuvola di respiro.

Monte Cengio, 18 gennaio 1916

Mia amata Nenè,

qui la vita è difficile, ma sto bene.

Vorrei scriverti di più ma ho quasi finito la carta, non so quanto durerà ancora.

Non smettere di aspettarmi, ti prego. Torno presto.

Ti amo,

Michele

Febbraio

La buca lasciava intravedere il suo volto, dal naso alla punta dei capelli. Sapeva

che avrebbe rischiato un proiettile in piena fronte, ma lasciò che il suo sguardo

si perdesse tra le prime fioriture. Il grigio della montagna iniziava a essere spezzato da qualche accenno di colore. A valle il fiume aveva ricominciato a scorrere, le case avevano perso i loro cappotti e le ultime chiazze di neve riposavano al sole, sciogliendosi flemmatiche sull’erba. Seguì con gli occhi il dirupo, percorse la roccia fredda e solitaria.

Avrebbe preferito essere morto. Un altro corpo disteso a faccia in giù nel fango,

un altro ratto ammazzato. Guardava il blu delle genziane fremere in mezzo alle

rupi. Sembravano uomini aggrappati disperatamente alla vita, oppure grappoli

di case appesi alle scogliere del mar Ligure. Il profumo di salsedine di quelle

estati lo investì in pieno volto. Si chiudeva sempre la porta della casa alle spalle

e correva verso la spiaggia, senza maglietta. Raggiungeva la riva, affondava i

piedi nella sabbia ruvida, incurante delle urla di sua madre. Lui e Giovanni si

sdraiavano con i polpacci a mollo nell’acqua, fino a quando la schiena non si

faceva troppo umida, fino a quando il cielo non si faceva dello stesso colore delle loro guance.

Il mormorio delle nubi lontane annunciava una tempesta. Un cane rincorreva il

padrone a qualche centinaio di metri di distanza. Erano felici, di quella felicità

sincera e improvvisata.

Sorrise alla domanda del fratello. Si immaginava dall’altra parte del mare, in

America. Da quella spiaggia riusciva già a sentire l’odore dell’olio dei motori,

aveva la vista annebbiata dai fumi delle macchine della fabbrica in cui avrebbe

lavorato. Avrebbe presto compiuto diciotto anni, sarebbe presto riuscito a fuggire dalla fattoria, dallo stagno, da sua madre che lo chiamava per la cena. Avrebbe portato Nenè, il suo primo viaggio in nave. Avrebbero avuto dei figli.

Chiuse gli occhi, mentre la brezza marina gli scompigliava i capelli, quasi a voler incidere sulle palpebre il quadro immaginario della loro casa numerosa, per catturare per sempre le risate dei bambini, il miagolio di un gatto. Era sicuro che sarebbero stati felici, anche senza un cane che li rincorresse sulla spiaggia, anche senza una spiaggia.

Le sue parole confuse vennero interrotte da un guizzo di luce seguito da un

boato.

Il ricordo era così vivido che per un attimo credette che il temporale avesse raggiunto la riva. Spalancò gli occhi, pronto a raccogliere le scarpe e correre a casa.

Eppure, con i piedi immersi nel fango, di scarpe non ne vedeva. Non sapeva

nemmeno più cosa fosse una casa, il tepore del fuoco, un pasto caldo.

La trincea si faceva sempre più scura, si preparava per un’altra nottata. Nessuna

tempesta in arrivo, nessuna goccia di pioggia. Calma piatta. Non era sicuro di

voler distogliere lo sguardo dal cielo limpido e sgombro di nuvole per scoprire

la causa del violento scoppio che l’aveva strappato al tepore dei ricordi. L’odore

acre di polvere da sparo gli investì le narici, mettendolo in allerta.

I Tugnitt non attaccano la sera.

Gli occhi guizzarono verso la passerella in mezzo alla buca, dove due paia di

braccia trascinavano un corpo lontano dalle scarpe di un ufficiale. Non ricordava il suo nome, sapeva solo che era diventato matto. Piangeva, aveva cercato di disertare. L’avevano fucilato.

Monte Cengio, 11 febbraio 1916

Cara mamma,

sto bene.

Michele

Marzo

Il canarino aveva smesso di cantare.

La sua gabbia ondeggiava, appesa al soffitto della galleria. Il corpo dell’animale

giaceva immobile, abbandonato sul freddo fondo di metallo.

La nebbia era avanzata, più in fretta del solito. Aveva sibilato, sfiorando i piedi

della montagna, era parsa una sciarpa pronta a strozzarne il versante. Prima che il colore giallastro di quella nebbia più densa e avvolgente avesse raggiunto le narici dei soldati, il cinguettio era cessato.

Un tonfo sordo proveniente dalla galleria di comando alle sue spalle gli aveva

fatto vibrare le ossa. La porta si era chiusa dietro agli ufficiali, sigillata dall’olio

delle guarnizioni. I generali si erano murati, i loro polmoni non avrebbero conosciuto la mancanza di ossigeno.

Fu come se si fosse svegliato da un sogno.

Cercò disperatamente di raggiungere la maschera più vicina, ma le sue gambe

cedettero. I piedi in cancrena lo avrebbero fatto annegare nel fumo. Si rialzò a

fatica, graffiando la roccia con le unghie spezzate, boccheggiando come un pesce fuor d’acqua per conservare il ricordo dell’aria. Avanzava a tentoni, accecato dalla paura, cercando di trattenere il respiro.

Calpestò qualcosa di duro, avvertì un rumore di rami secchi. Il soldato a cui aveva appena spezzato un braccio era disteso a terra, agonizzante. Il suo volto era coperto da una maschera.

Non pensò. Fu preso da una furia animale, si accasciò accanto al compagno

e gli strappò l’elmo antigas dalla testa per poi infilarselo. Tra le dita gli rimase

impigliata qualche ciocca di capelli e pidocchi.

Riprese a respirare.

Da dietro i vetri appannati osservò il soldato morire.

Lo vide contorcersi e tossire. Tendeva le braccia verso di lui, in una disperata

richiesta di aiuto. Si dimenava, come se in quel mare giallo fosse stato sfiorato

da centinaia di meduse. I suoi occhi si fecero vitrei, il suo petto pesante.

Sussurrò qualcosa.

Poi si spense, rannicchiato sulla passerella di legno.

Gli sembrava di stare sott’acqua. I suoni gli giungevano distorti, filtrati dallo spesso strato di metallo che gli copriva le orecchie. Le cinghie della maschera antigas gli trapassavano il cervello, impedendogli di pensare.

Il sole era ormai calato, il rosso tramonto era giunto ad annegarli in un mare di

sangue. La nebbia si era dispersa oltre i castagni.

Armeggiò febbrilmente con le fibbie di pelle scura, graffiandosi le mani già logore, fino a quando quella stretta mortale non fu allentata. Si strappò l’elmetto dalla faccia e lo lasciò cadere.

Inspira, espira. Inspira, espira.

Inarcò la schiena per respirare a pieni polmoni il profumo chiaro della luna che

tremava sopra le loro teste.

Monte Cengio, 24 marzo 1916

Cara Nenè,

sono vivo.

Michele

Aprile

La terra era molle e calda. In mezzo alle gallerie il tanfo dei ratti si mischiava aquello del petrolio, del cognac e degli escrementi.

Che profumo ha la morte?

Le sue narici furono invase da un nuovo e gelido odore. Pungente, quasi dolciastro.

Che profumo ha la morte?

Non c’era tempo per pensarci. Il cadavere avrebbe attirato ancora più mosche. Si spostò a fatica insieme ad alcuni compagni. A capo chino attraversarono lapasserella, trascinando i piedi sul legno bagnato. Riuscì a liberare le spalle delsoldato dalle pietre che gli incorniciavano il viso pallido e gli occhi sbarrati. Gli sfilò gli stivali logori, gli afferrò le caviglie e lo sollevò, mentre gli altri uomini lo tenevano per le braccia. Si avvicinarono al precipizio e lo lasciarono cadere.

Il corpo scivolò giù, come scivolano le gocce di pioggia nelle grondaie. Lo osservavarotolare, rimbalzare sulla roccia e farsi sempre più lontano, sempre piùpiccolo, sempre più insignificante e inutile come tutti erano insignificanti e inutili.

Un dolore sordo gli perforò l’orecchio, provocandogli una fitta alla tempia. Strizzò gli occhi e quando li riaprì il soldato era scomparso, inghiottito dalla valle.

L’eco dei sassi solitari che franavano per seguire la sua fine era il suo commiato.Il cinguettio degli uccelli il suo pianto. Il suo unico ricordo era un brandello di uniformevimpigliato in una sporgenza: tremava nel vento, pronto a staccarsi da unmomento all’altro e volare via, per rincorrere il suo proprietario nel cielo sereno.

L’aria densa fu spezzata dal mellifluo tintinnio di un gheppio alla ricerca dellapreda. L’animale era immobile nel cielo con la coda aperta a ventaglio. Di tanto intanto sbatteva le ali, lasciando che le folate scivolassero impalpabili tra le piumee lo mantenessero lì, appeso a una nuvola chiara.

Ki-ki-ki.Lo osservò lanciarsi in picchiata per catturare un topo, come la mano di un pianistaappena prima dell’ultimo accordo. La fine della melodia dell’Altopiano era ormaivicina. Il sipario stava per chiudersi, lo spettacolo sarebbe presto terminato.Si mise a ridere.In mezzo a tutto quel presente gli sembrava quasi di essere felice. Si ubriacava del calore del sole primaverile sulla pelle, si inebriava delle traiettorie degli insetti,percepiva l’acqua infilarsi tra le rocce carsiche e ribollire nel sottosuolo.Si unì al verso del gheppio e iniziò a cantare.

Quel mazzolin di fiori…

Da lontano gli rispose un gemito tremante.

Che vien dalla montagna…

Ciò che un tempo era stata una rassicurante polifonia di voci si era trasformato in un dialogo solitario. Andarono avanti così, fino a quando le ombre non si feceropesanti come le loro palpebre, come i loro cuori.

Stasera quando il viene, sarà una brutta sera… 

Monte Cengio, 13 aprile 1916

Caro Giovanni, pensaci tu alla mamma.

Io non tornerò.

Sii forte.

Michele

Maggio

Il battito del suo cuore scandiva i secondi. La paura gli sbatteva sulle tempie. Rimbombava nelle orecchie, echeggiava in mezzo al petto, tra le costole, dietrola carne grigiastra e massacrata. Dondolava avanti e indietro, avanti e indietro,come un pendolo dal moto perpetuo.

Tic, tac. Tic, tac.

Il nemico stava avanzando. Se il Monte fosse caduto avrebbe invaso la valle.Pensò agli occhi verdi di Agnese, ai suoi capelli biondi come il grano maturo.10 11Pensò alle foglie sul pelo dell’acqua, al salice in riva allo stagno. Pensò al granaio in fiamme. Sua madre sarebbe morta di dolore.

Tic, tac. Tic, tac.

Riusciva a percepire ogni molecola di ossigeno attraversargli le narici e depositarglisinel sangue ribollente. Avrebbe desiderato essere con loro, diventare ossigeno per annegare in quel fondale di aria e attesa.

Tic, tac. Tic, tac.

Fu preso da un’energia nuova. Impugnò gli attrezzi e iniziò a colpire la gelidaroccia calcarea. Scavava, come una termite nel legno, come una talpa appenasotto la superficie, in un ultimo disperato tentativo di costruire inutili ripari.

Tic, tac. Tic, tac.

Il cielo si fece scuro e terso. In lontananza enormi nuvole di fumo nero si alzavanodalle foreste. Il nemico aveva incendiato magazzini e depositi. La speranzabruciava. Lo strapiombo era avvolto dal silenzio. Non gli restò che attendere il tuono.

Tic, tac. Tic, tac.

Aveva così tanto desiderato la morte da esserne quasi affascinato. Eppure, mentreascoltava i colpi di cannone, un terrore cieco gli chiuse lo stomaco. Per laprima volta non riusciva a sentire altro che il rumore delle bombe sull’Altopiano.

Il loro terribile concerto sovrastava la goccia di rugiada che scivolava sulla fogliadel faggio, lo zampettare della coccinella sugli steli, il fruscio delle ali di un passerotemerario. Le voci amiche dei soli al mondo come lui avevano smesso diparlare. Il pianto del vento si era zittito, la cicala non friniva, il nocciolo era fermo.

L’acqua inghiottita dalla roccia non borbottava sotto i suoi piedi, il muschio non

sussurrava, le bacche non vibravano al sole. La nebbia non fremeva, si aveval’impressione che avesse intrappolato l’altura.

Tic, tac. Tic, tac.

Non era mai stato così solo.

Fu solo quando imbracciò il fucile.

Fu solo quando sparò.

Fu solo quando uccise il nemico che a lui tanto sembrava un fratello.

Fu solo quando finì le munizioni.

Fu solo quando vide i fanti invadere il sentiero.

Fu solo quando straziò pelli umane con la lama della baionetta.

Fu solo quando si aggrappò al collo di un soldato.

Fu solo quando lo trascinò giù dallo sperone di roccia, lanciandosi nel vuoto.

Caddero avvinghiati, volteggiarono nel vento in una danza leggiadra e infinitamente tranquilla.

Si unirono in un ultimo abbraccio tra uniformi diverse, cuore contro cuore.

L’ultima cosa che sentì fu un boato, la porta di casa che sbatteva dietro allespalle di sua madre, la sua voce lontana che gli ordinava di correre a tavola. Era sdraiato nel campo dietro al granaio, a occhi chiusi, come sempre. Le scarpe numero ventotto, troppo grandi per i suoi piedi da bambino, erano rimaste in un angolo, abbandonate tra le balle di fieno.

Ascoltava il profumo dell’erba appena tagliata.

Molecola C6H10O. Cis-3-esenale. Composto chimico responsabile di quell’odore terribilmente estivo. Il disperato grido degli steli addensava l’aria. I loro corpi spezzati giacevano gli uni sugli altri, inermi.

Gli somigliavano.

Così, Michele si abbandonò alla montagna

Monte Cengio, 27 maggio 1916

Cara mamma, caro papà,

se questa lettera vi dovesse giungere significa che non vi vedrò più.

Stamattina ci siamo svegliati sapendo che nessuno di noi tornerà a casa.

Tra qualche ora qui tutto sarà distrutto, quindi ci godiamo gli ultimi momenti prima

della battaglia, prima che tutto sia coperto dal rumore delle granate e dei

proiettili.

Vorrei raccontarvi tutto quello che non vi ho scritto in questi mesi. Vorrei dirvi del

freddo, della noia, del silenzio. Vorrei farvi conoscere il ruscello e i fiori di montagna

che nascono in primavera.

Vi mando la mia medaglia nella speranza che non vi dimentichiate di me. Quando

la guerra finirà, venitemi a cercare, mi riconoscerete nel verso di un gheppio.

Vi chiedo solo una cosa: quando arriverete sulla cima fate cadere la targa dalla

montagna e pregate per noi tutti, anche per i Tugnitt.

Non piangete per me, non abbiate paura. Io non ne ho.

Morirò felice sapendo di aver fatto di tutto per difendervi.

A Giovanni lascio tutte le mie cose, saranno più utili a lui di quanto mi possano

servire da morto. Salutatemi l’Agnese e ringraziatela tanto delle lettere che mi

ha scritto.

Ora devo andare, ma vi penserò fino alla fine.

Addio.

Michele

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Fonte: Il Sole 24 Ore