Aria d’estate con Felice Carena alle Gallerie d’Italia

Varcando la soglia d’ingresso sin da subito risulta decisamente un’ardua impresa categorizzare lo stile pittorico di Felice Carena (1879-1966), artista torinese (fiorentino e veneziano d’adozione) del Novecento storico, un nome conosciuto, talvolta ingiustamente sottovalutato. Sono sei le sezioni espositive presenti in mostra alle Gallerie d’Italia di Milano per raccontarne ascesa e sviluppo della sua arte, dagli esordi alle Biennali veneziane. Un viaggio attraverso la prima metà del XX secolo con tecniche sempre nuove, in una continua ricerca di dialogo tra tradizione classica e rinascimentale, simbolismo ed espressionismo. Sin dalle prime opere più tetre e con accenti caravaggeschi come in Putti ebbri danzanti del 1909, nello sfaldarsi delle buie forme ne il Ritratto della baronessa Ferrero (1910) o ne Il nastro azzurro (1911) si nota la spasmodica ricerca di luce, per indagare un’umanità sempre maggiore col passare del tempo. Sono gli anni romani dell’artista, in cui crea capolavori dallo stile preraffaelita come l’Ofelia (1912), che strizza l’occhio a quella di Millais senza prevaricarla. Successivamente si dedica a composizioni di materiche nature morte e cose comuni, ricercando con utopica smania una luce plastica nel mondo delle forme. Il suo stile diventa più colorato, smaltato e pastoso: il richiamo all’espressionismo francese di Matisse e al rigore geometrico di Cézanne è evidente con il colore sgargiante lavorato tramite poderose pennellate e frastagli materici di zone cromatiche.

Il teatro popolare

Appassionato di teatro popolare, nei dipinti del 1933 e del 1954 che vertono sul tema, Carena dà luce agli spettatori e non ai teatranti, sottolineandone pregi, mimica e difetti: gli attori diventano il popolo stesso, i vinti improvvisamente si trasmutano in star. Nel corso degli anni la pittura dell’artista diviene molto più esistenzialista e tormentata, come si può notare dagli autoritratti, placati però dalla composta e limpida luminosità delle nature morte e dei valori compositivi che regalano un senso di tregua e pace interiore. La religiosità e la spiritualità rivestono per Carena un ruolo fondamentale, nel secolo dell’“eclissi del sacro”: le sue famose Deposizioni datate 1938, 1955 e 1963 hanno diverse e tragiche condotte pittoriche, dal titanismo realista a uno sbocco dal segno vacillante, con corpi tormentati. Vari i soggetti biblici e mitologici con tratti grafici vibranti e sintetici, figure morbide e bozzettistiche tratte da veloci disegni come in Adamo ed Eva, Giuditta e Oloferne, o I Cavalieri dell’Apocalisse del 1949. Infine, l’ultima sala: sembra incredibile come dal simbolismo del primo autoritratto dal colore pulviscolare – datato 1904 – Carena vent’anni dopo abbia prodotto opere dal calibro di Serenità (1925) o La Pergola, dove dominano i volumi e la cura dei dettagli. Come un camaleonte multiforme, è tuttavia nella sua più celebre opera che si può notare con maggior enfasi il suo variegato percorso stilistico. Estate (l’amaca) ritrae una giovane donna sdraiata al sole, in totale otium esistenziale. Il volto disteso in un sorriso serafico, una mano dolcemente molle a terra e l’altra che cinge un mazzolin di fiori come la donzelletta de Il Sabato del Villaggio leopardiano le donano un’aria spensierata, carica della luce vibrante che regala la stagione estiva e che Carena persegue da tutta la vita: una scelta decisamente Felice.

Felice Carena, Gallerie d’Italia (Milano), fino al 29 settembre 2024

Fonte: Il Sole 24 Ore