Avvocati, legittima l’esclusione dei soci di capitale in studio

Avvocati, legittima l’esclusione dei soci di capitale in studio

Tutelare l’indipendenza degli avvocati e il rispetto degli obblighi professionali e deontologici. Obiettivi messi in primo piano dalla Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza depositata il 19 dicembre nella causa C-295/23. Per gli eurogiudici, l’indipendenza e l’integrità della professione di avvocato sono motivi imperativi di interesse generale e, quindi, gli Stati membri possono impedire a investitori puramente finanziari, che non intendono esercitare un’attività professionale, di diventare soci di una società di avvocati.

Il contenzioso tra la Stp e l’Ordine

A chiedere l’intervento della Corte Ue è stato il Consiglio di disciplina degli avvocati della Baviera alle prese con una controversia tra una società di avvocati con sede in Germania, iscritta nel registro delle imprese, e l’Ordine forense di Monaco. La società aveva modificato il proprio statuto e ceduto 51 delle 100 quote sociali a una società di diritto austriaco, non autorizzata a fornire servizi di consulenza legale. Di conseguenza, l’Ordine forense aveva disposto la cancellazione della società dall’albo degli avvocati perché solo i legali potevano essere soci di una società di avvocati. Il provvedimento era stato impugnato dinanzi al Consiglio di disciplina che ha chiesto alla Corte Ue di chiarire la portata dell’articolo 15, paragrafo 2 della direttiva 2006/123 relativa ai servizi nel mercato interno in base al quale gli Stati membri verificano se il proprio ordinamento giuridico «subordina l’accesso a un’attività di servizi o il suo esercizio al rispetto dei requisiti non discriminatori» tra i quali gli obblighi relativi alla detenzione del capitale di una società. Una questione che interessa molti Stati membri, sei dei quali sono intervenuti nel procedimento dinanzi alla Corte che non ha condiviso l’opposta visione dell’Avvocato generale.

L’applicazione di limiti nella detenzione di quote in una società con sede in un altro Stato membro – precisa la Corte – rientra nel perimetro di applicazione della direttiva 2006/123, come precisato dal considerando n. 33. Gli Stati membri, in linea con la direttiva, possono fissare dei limiti alla detenzione di quote da parte di società commerciali a condizione che non vengano inseriti criteri discriminatori sulla base della cittadinanza o dell’ubicazione della sede legale di una società. I limiti, inoltre, per essere compatibili con il diritto Ue, devono essere giustificati da un motivo imperativo di interesse generale e devono essere proporzionali e non eccedere quanto necessario per conseguire un determinato obiettivo, valutando la possibilità di applicare misure meno restrittive.

«Integrità e indipendenza della professione»

Assicurare l’indipendenza e l’integrità della professione di avvocato – scrive la Corte – nonché il principio di trasparenza e il rispetto dell’obbligo del segreto professionale rientra tra i motivi imperativi di interesse generale. Già in passato, d’altra parte, è stato affermato che il corretto esercizio della professione forense è un motivo imperativo che giustifica limitazioni. Il divieto di acquisizione delle quote da parte di investitori puramente finanziari è così giustificato anche perché «considerazioni di natura economica orientate verso il profitto a breve termine dell’investitore puramente finanziario potrebbero prevalere su considerazioni guidate esclusivamente dalla difesa dell’interesse dei clienti della società di avvocati». Non va escluso anche il rischio di un conflitto tra norme professionali o deontologiche che non sono armonizzate, con la conseguenza che nel rispetto del principio di non discriminazione e di proporzionalità, gli Stati membri possono escludere la partecipazione di investitori puramente finanziari alle società di avvocati.

Fonte: Il Sole 24 Ore