Aziende, macigno sui conti: interessi impossibili da dedurre

Il tema del trattamento fiscale dell’indebitamento delle società è da tempo oggetto di riflessione, anche a causa delle differenze tra il regime applicato in Italia e quelli più favorevoli, adottati in gran parte dei Paesi europei.
Si tratta di una materia che – tra colpi di coda del Covid e conseguenze dell’invasione russa in Ucraina – sembra destinata a richiedere nuova attenzione, anche per l’effetto combinato di una dinamica dei prestiti bancari che resta sostenuta (sia pur non ai livelli della fase emergenziale della pandemia) e di tassi di interesse tendenzialmente in rialzo. E che rischia di fare i conti con più di un’incognita, spinta anche dalla crisi bellica, sulla redditività delle imprese, specie in alcuni settori. Elemento questo che determinerebbe una (ulteriore) crescita degli interessi passivi indeducibili.

Le regole del Testo unico delle imposte sui redditi (Tuir) – con il nuovo articolo 96 in vigore dal 2019 – sono il frutto del recepimento della prima direttiva antielusione (Ue 2016/1164, Atad 1). La norma prevede che gli interessi passivi siano deducibili fino a concorrenza di quelli attivi e, per la parte eccedente, nel limite del 30% del risultato operativo lordo della gestione caratteristica (Rol a valori fiscali e non più contabili). Gli interessi indeducibili nell’anno d’imposta sono dedotti dal reddito dei successivi periodi, utilizzando i medesimi criteri di calcolo.

Linea dura in Italia

Nell’adeguarsi alle regole europee, come spesso è accaduto, il nostro Paese ha scelto una linea piuttosto conservativa. Ha scelto, in altri termini, di non sfruttare alcuni spazi di autonomia e deroghe che la direttiva offriva (e offre) agli Stati, pur all’interno di un quadro comunitario volto a non assecondare/incentivare l’eccessivo indebitamento delle imprese.

Questi stessi spazi di autonomia sono invece stati colti da molti altri Paesi che – a differenza dell’Italia – consentono la piena deducibilità degli interessi passivi per le imprese che non appartengono a gruppi (società “stand-alone”) e, in molti casi, non pongono vincoli alla deducibilità entro determinati volumi di interessi netti (la direttiva indicava un livello massimo di 3 milioni di euro), con significativi benefici per le piccole e medie imprese.

Oltre 40 miliardi non dedotti

Per avere un’idea delle dimensioni del fenomeno si possono guardare le statistiche sulle dichiarazioni fiscali delle società, il cui ultimo aggiornamento è stato rilasciato dal dipartimento delle Finanze a fine febbraio. Nel modello del 2020 (anno di imposta 2019, quindi prima dell’emergenza sanitaria), le società di capitali hanno indicato interessi passivi iscritti in bilancio per 29,8 miliardi di euro. A questi si aggiungevano oltre 38,4 miliardi di euro di interessi passivi “riportati” dai periodi di imposta precedenti.

Fonte: Il Sole 24 Ore