“Bones and All”, l’amore cannibale di Guadagnino in un film imperdibile

“Bones and All”, l’amore cannibale di Guadagnino in un film imperdibile

Al cinema è la settimana di “Bones and All”: protagonista del weekend è il nuovo film di Luca Guadagnino con Taylor Russell e Timothée Chalamet.
Presentato in concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, dove Guadagnino ha vinto come miglior regista e Taylor Russell ha ottenuto il Premio Marcello Mastroianni, “Bones and All” racconta la storia di Maren, una diciottenne che si ritrova sola al mondo dopo l’abbandono del padre. La ragazza ha continui impulsi di cannibalismo che la costringono a restare emarginata, sempre nascosta da tutto e da tutti: un giorno, però, incontra un uomo vittima della stessa, terrificante situazione e, qualche tempo dopo, un ragazzo di cui finirà presto per innamorarsi.

Prendendo spunto dal romanzo omonimo di Camille DeAngelis, Guadagnino ambienta per la prima volta un suo lungometraggio negli Stati Uniti e firma un road movie che ha tanto a che fare con le pellicole statunitensi della New Hollywood: possono infatti venire in mente film come “La rabbia giovane” di Terrence Malick mentre si segue il percorso tra gli stati americani di questi due ragazzi, che lasciano dietro di sé una lunga scia di sangue.Guadagnino aveva già raggiunto la piena maturità con “Chiamami col tuo nome” e si era confermato con il bellissimo – e altrettanto controverso – “Suspiria”, due pellicole che, insieme anche alla sua serie “We Are Who We Are”, sono fortemente collegabili con questa nuova opera per diverse ragioni.

Un film che sa emozionare

Il tema del cannibalismo diventa presto una metafora del disagio della crescita e delle relazioni umane in questo potente racconto di formazione che, tra le altre cose, è anche un ottimo film d’amore, capace di toccare corde emotive particolarmente profonde.Grazie anche alla notevole colonna sonora firmata da Trent Reznor e Atticus Ross, “Bones and All” è un prodotto di grande fascino, in cui Guadagnino gestisce molto bene i tempi di montaggio e dirige ottimamente l’intero cast: oltre ai due protagonisti, si segnalano soprattutto Chloë Sevigny, Michael Stuhlbarg e Mark Rylance, tutti chiamati a interpretare ruoli tutt’altro che semplici.La resa complessiva è incisiva e ricca di suggestioni: nonostante qualche sequenza richieda uno stomaco piuttosto forte, chi è in cerca di un film capace di coinvolgere, oltre che di giocare intelligentemente con il simbolismo, non può assolutamente perderselo.

Tori e Lokita

Tra le novità in sala c’è anche il dodicesimo lungometraggio di finzione della carriera dei fratelli Dardenne, “Tori e Lokita”.I due autori belgi hanno scelto di raccontare la storia di due giovani migranti, arrivati in Belgio dopo aver percorso un lungo viaggio in solitaria dall’Africa all’Europa.Lei è una ragazza adolescente, lui poco più che un bambino: il loro legame è messo a dura prova dalle severe condizioni in cui vivono.Poco importa se i due personaggi siano realmente fratello e sorella come dicono, oppure se si siano conosciuti dopo la partenza dall’Africa: quello che conta è che ci troviamo davanti agli occhi un rapporto sincero tra due giovanissimi con cui è facile empatizzare fin dalla prima sequenza.Quello di Tori e Lokita è un percorso sempre più drammatico, attraverso un climax tensivo crescente in cui i Dardenne, però, caricano in maniera eccessiva alcune sequenze nella speranza di poter scuotere lo spettatore in tutti i modi.Si tratta dell’ennesimo racconto profondamente morale della filmografia dei due autori (tra i loro lungometraggi più belli vanno ricordati “Rosetta”, “Il figlio” e “L’enfant”), con al centro ancora una volta dei giovani costretti a lottare per sopravvivere e trovare un proprio posto nel mondo contemporaneo.Lo stile dei Dardenne, rappresentato da una cinepresa a mano sempre molto dinamica, è incisivo ma ormai privo di quell’originalità e di quel respiro che il loro cinema aveva nella prima parte della carriera. Notevole la sequenza finale e alcuni passaggi nella parte centrale, ma complessivamente il disegno d’insieme è troppo ripetitivo e fatica ad appassionare come dovrebbe.Piccola curiosità: all’interno della narrazione un ruolo importante è affidato alla canzone di Angelo Branduardi “Alla fiera dell’Est”.

Fonte: Il Sole 24 Ore