Cambio di paradigma nel mondo del lavoro: da fatica ad autorealizzazione

Negli ultimi anni nelle aziende si assiste sempre più chiaramente ad una sorta di conflitto culturale relativo alla visione del lavoro. Da un lato gli “anziani” legati ad una concezione del “lavoro come fatica”, dall’altra i “giovani” legati ad una concezione del lavoro come “autorealizzazione”.

Ovviamente la distinzione tra “anziani” e “giovani” è una semplificazione che non ha una stringente correlazione con l’anagrafe. Tendenzialmente però sono soprattutto gli over 40 ad aver fatto in tempo ad assimilare la millenaria visione del lavoro come condanna esistenziale al sacrificio (in molte zone del sud Italia la parola lavoro è sostituita dalla parola dialettale “fatica”, in spagnolo, francese, siciliano il lavoro è “travaglio”), mentre sono tipicamente i più giovani ad avere una visione più strumentale del lavoro: o il lavoro migliora la mia vita o trovo il modo di farne a meno.

Nella quotidianità il conflitto tra queste due visioni prende corpo soprattutto perché spesso gli “anziani” sono i capi dei “giovani”. I primi vedono nel lavoro prima di tutto la dimensione della quantità, i secondi invece la dimensione della qualità. I primi tendono a ritrovarsi nella nostalgia di tempi eroici, di lavoro duro: “Quando ho cominciato si lavorava senza guardare l’orologio, altro che permessi e smartworking”; “Ai miei tempi se il mio capo faceva un cenno io scattavo sull’attenti”; “Altro che promozione! Prima ti spacchi la schiena e poi se ne parla”. I secondi, al contrario, sono innamorati del work life balance e inquadrano la valutazione del lavoro sempre in termini di qualità della vita. Per loro la stabilità non è un valore assoluto. Sono costantemente affascinati dall’idea del cambiamento e non sono disposti in nessun modo a venire a compromessi (con l’etica, con il proprio tempo, con il proprio carattere, con la propria autonomia).

I colloqui di lavoro fotografano qualche volta in modo comico questo “conflitto di civiltà”. Chi ha cominciato a lavorare negli anni 80/90 e ricorda il suo primo colloquio rischia di restare sopraffatto dal cambio di paradigma: “Questi ragazzi sono fuori dal mondo. Sembrava che mi facesse un favore a venire al colloquio. Sono io che ti sto offrendo un’opportunità, non tu…”. Non è un caso che in alcuni contesti le distanze tra selezionatore e candidato siano così accentuate che il Dipartimento Risorse Umane deve svolgere letteralmente la funzione di interprete e mediatore culturale.

Ad ogni modo, nonostante le difficoltà, queste due visioni del lavoro stanno faticosamente convivendo e si stanno lentamente contaminando. L’impressione è che arriveremo presto a una “sostituzione culturale”, complice anche lo sviluppo della tecnologia e dell’intelligenza artificiale. Andiamo verso un mondo in cui si lavora per scelta e solo a determinate condizioni, un mondo in cui il capo/datore di lavoro deve “vendere” soluzioni ai propri collaboratori, sempre più liberi di non comprarle.

Fonte: Il Sole 24 Ore