Cantando il male contro la mala
Soltanto il familismo (amorale) hollywoodiano, inaspettatamente dimostrato da Greta Gerwig verso Anora, ha impedito a Emilia Pérez di trionfare a Cannes. Quando il film di Jacques Audiard è passato al festival lo scorso maggio è stato come se in campo fosse entrato un genio irregolare. Emilia Pérez racconta la Mala messicana in versione musical, ma senza i bei corpi di East Side Story, bensì con denti di ferro, tatuaggi alla buona, facce di latinos pieni di rughe e fisici appesantiti. Sotto l’abile saldatura di Audiard, anche sceneggiatore, Emilia Pérez si trasforma mutevolmente in noir, melodramma, commedia, telenovela e gangster movie.
La tentazione del re dei narcotrafficanti
Il tutto ha inizio al mercato rionale, dove Rita (Zoe Saldaña), un’avvocatessa di umili origini, lavora dall’oscurità di una seconda fila per una causa in cui sottrarrà di nuovo un potente colpevole alla prigione. Così quando viene tentata dall’incarnazione del Male, ovvero il re dei narcotrafficanti messicani, Manitas Del Monte (Karla Sofìa Gascòn), decide che continuerà a stare dalla parte sbagliata, ma questa volta diventando almeno ricca. Manitas le chiede di aiutarlo a sparire e a diventare la donna che ha sempre sognato di essere e che prenderà il nome di Emilia Pérez. Il tutto potrebbe sembrare comico se non grottesco – e a volte piacevolmente lo è –, ma assume la nobiltà di una grande opera contemporanea con parole felici, senza jingle facilmente cantabili, rapinosi perché veri. Il film di Jacques Audiard funziona, infatti, perché vivo, originale, unico e tiene dietro solo a sé stesso. Quando il mercato balla, raccontando gli umiliati e offesi, non canta strofe caramellose, ma dense di un significato profondo grazie ai testi e le musiche di Camille e Clément Ducol. La capacità tecnica sonora di Cyril Holtz, Erwan Kerzanet e Aymeric Devoldère fa entrare nel vortice il mondo esterno avvolgendo il ritmo e amplificandolo.
Le parole originali delle musiche
Quando i figli di Manitas si ritrovano ad essere orfani perché il padre, nel segreto di quanto è successo, sceglie di essere morto per il resto del mondo, ecco che la figlia riabbracciandolo sotto le vesti e l’identità nuove di Emilia Pérez, una zia piombata dal nulla, sente una familiarità. E quando prende a cantare, in sussurrato, come capita a tanti altri personaggi, non esprime concetti aerei sull’amore filiale, ma parla di cose terrenissime, come l’odore, che mancano quando una persona cara scompare. Quella canzone, Papa,è un capolavoro di poesia: la bambina ritrova nella zia l’odore della pelle del padre, che le ricorda quello del cuoio, dell’hierbabuena, del mangiare piccante, dell’olio del motore e del sudore.Questo miracolo è possibile perché tutto avviene in spagnolo, una lingua più che corporea, sin dal semplice “Mi dispiace” che si esprime in un “Lo siento”, una compartecipazione fisica. Perché è di corpo che parla il film, di quanto la coerenza tra identità e fisico possano cambiare la vita di una persona. Manitas avrebbe voluto da sempre essere una donna, ma questo non gli impedisce di amare e aver amato una donna, nella infinita complessità che è la sessualità.
Un film contro il Male
Si suppone che se Manitas fosse nato femmina non sarebbe caduto nel giro del narcotraffico e quindi non avrebbe investito la rabbia della sua dualità forzata, unita alla condizione di povertà, nel peggiore degli esiti, ovvero la violenza, le uccisioni sommarie, la brutalità più misera e facile contro gli ultimi, categoria cui per altro Manitas appartiene. Può suonare giustificazionista, ma attenzione, Emilia Pérez non scagiona mai il Male, in nessun momento. È un film sulla redenzione, ma senza alcuna empatia nei confronti dell’orrore delle pandillas, le bande armate di strada e di chi le comanda: la sceneggiatura le denuncia e le punisce. Emilia Pérez, però, sa anche giocare nelle coreografie di Damien Jalet, tra chirurghi plastici e karaoke.
Il Golden Globe
Quando Rita danza tra i tavoli della cena di gala, denunciando la prossimità tra potere e delinquenza con la canzone El Mal – che ha vinto il Golden Globe –, vestita di rosso come il sangue delle tante vittime, è trascinante come un carosello che parla però di corruzione. Audiard non ha paura di avvicinarsi al Male, a quello spiccio che cammina sulle strade, come in Un Profeta, film sempre attento a non rimanere abbagliato dalla parte buona dei cattivi. Al dolore fisico, qui rappresentato dal calvario del cambio di sesso, e ben vivo anche ne Un sapore di ruggine e ossa (2012). E al tema della paternità e della violenza, in Emilia Pérez ancora più sottile. Il film è girato su un palcoscenico con la scenografia di Emmanuelle Duplay, l’ottima fotografia (spesso volutamente buia) di Paul Guilhaume e il lavoro dell’art director Virginie Montel. Insieme, hanno creato uno spettro di mondi, di sparatorie e di far west, credibile in pochi metri quadrati. Nei semplici particolari dei giochi tra tende e luce che ci fanno capire che una situazione è cambiata.E poi c’è il mirabile lavoro degli attori.
Fonte: Il Sole 24 Ore