Cercando la verità del post apartheid con la letteratura

Cercando la verità del post apartheid con la letteratura

Silenzio, sbandamento, deriva: è quel che prova Daniel davanti ai quadri dalle variazioni impercettibili della pittrice canadese Agnès Martin, esposti alla Tate Modern di Londra. Vi si sta specchiando: chi legge si trova infatti immerso in questo smarrimento via via che si addentra nella vita del protagonista nel capitolo iniziale di Padri e fuggitivi, primo romanzo tradotto in italiano dello scrittore sudafricano S. J. Naudé. Invece di continuare a visitare la mostra, cui teneva e che chiudeva quel giorno, Daniel si trova a seguire una coppia di giovani serbi. Come se fosse incapace di dire di no ai loro modi perentori, li invita anche a casa sua, asseconda le loro richieste sessuali, che inizialmente avvengono quando solo uno dei due è in casa, senza che si capisca se lo desidera. Paga per loro, li ospita infine, e poi – dopo che sono spariti per mesi senza una spiegazione – accetta di raggiungerli a Belgrado per una strana, inquietante vacanza.

Ricco abbastanza da poter seguire i suoi impulsi e da dover faticare per scansare il senso di colpa dei sudafricani bianchi, Daniel è uno scrittore che ha l’impressione che la sua vera casa sia a bordo di un aereo, «nei cieli gelati sopra l’Africa»: vive un po’ a Londra, un po’ a Città del Capo, dove è nato, inseguendo la sua inquietudine. Il primo capitolo è un piccolo capolavoro di tensione che si gioca sui pregiudizi: Daniel oscilla tra l’aver paura dei due serbi, e la vergogna di averne paura, di offenderli. Paura che gli fa continuamente alzare e abbassare troppo le difese, perdendo il controllo di sé. È l’altalena emotiva che viene usata strategicamente dai predatori per indebolire le vittime predestinate: e così anche chi legge rimane intrappolato nell’incertezza sulle reali intenzioni dei serbi, fino al colpo di scena che chiude il capitolo.

Il secondo si riapre ad anni di distanza, così come accade nei successivi: il romanzo prosegue saltando blocchi temporali ed entrando subito nel merito di un nuovo significativo episodio nella vita del protagonista, in una concatenazione di racconti ricchi di suspense che, tranne l’ultimo, potrebbero quasi essere autonomi (che è anche un po’ il limite del libro). Daniel si trova adesso nei quartieri residenziali ricchi di Città del Capo, dove gli stagni artificiali e i campi da polo si susseguono «in un silenzio da ospedale psichiatrico». È tornato per prendersi cura del padre, un uomo che mai gli ha lasciato finire una frase, e che ora soffre di demenza senile. A questo vecchio, che dovrebbe essere ottenebrato dalla malattia, ma che invece ha anche momenti di lucidità, racconta le sue relazioni con gli uomini – nessuna capace di durare – che non è mai riuscito a confessargli, fin nei dettagli più intimi. Più suo padre dimentica, più Daniel vuole ricordare. E vuole che suo padre sappia che lui ricorda. Vuole che la verità tracci nuove strade nel cervello del padre.

Una verità che pare simboleggiare quella che tutta la generazione di suo padre, adulti razzisti e omofobi all’epoca dell’apartheid, ha rifiutato di vedere, vivendo nel mondo parallelo dell’ipocrisia, della violenza reiterata. Sorge la luna, ed è «una palla gravida e indolente», scrive Naudé, che sa spargere metafore e indizi nelle splendide descrizioni degli scintillanti panorami di Città del Capo e della natura soverchiante del Free State. Alla morte del vecchio, Daniel sogna di inoltrarsi, bambino, nel bosco, tenendo un rocchetto di filo, la cui cima sta nelle mani del genitore. «Riuscirò sempre a trovarti», lo rassicura il padre con la voce indulgente e traboccante di speranza che aveva quando era piccolo. Al risveglio il figlio si accorge che tutto il rocchetto è stato srotolato in un groviglio di fili, impigliati nei tronchi di mille alberi. Si rende conto di aver intrappolato sé stesso.

Nel terzo capitolo Daniel si trova costretto a far ritorno alla fattoria che era stata dei nonni, incontrare il cugino e affrontare il risentimento per il disprezzo di classe, l’arroganza con cui i suoi genitori avevano sempre trattato il ramo contadino della famiglia. Dal canto suo il cugino, da qualche anno, ha deciso di ospitare in casa i lavoratori della fattoria, gli unici ad averlo aiutato quando ha avuto bisogno, che vivevano in baracche. Ma non sa far altro che dargli ordini. Loro ricambiano con la diffidenza.

Fonte: Il Sole 24 Ore