Christoph Büchel e la svalutazione inesorabile di ogni modello sociale

Sono i palloncini in presunto vetro di Murano, scrupolosamente etichettati, a brulicare dietro le vetrine che accolgono i turisti a Venezia, i potenziali acquirenti da ammaliare. E non a caso, i barboncini sfavillanti di Koons restano tra le opere più vendute tra San Marco e il Ponte di Rialto. Parimenti e appesi come palloncini, al piano terra alcuni ferri rugginosi e rotondeggianti da fabbro si stagliano davanti ai visitatori del “Monte di Pietà”, la mostra immersiva di Christoph Büchel che occupa il palazzo della Fondazione Prada, trasformandolo per intero in un banco dei pegni.

Caos pulviscolare

L’artista svizzero non poteva scegliere scenario più adatto della Serenissima per allestire una tale esposizione di “roba”, dove i particolari della storia si perdono nel caos pulviscolare, strozzati dalla stratificazione disordinata del tempo, o meglio, dall’uso che gli esseri umani perseverano a farne, necessitando di sovrastrutture e gerarchie fugaci per risolvere le loro contraddizioni fisiologiche. Varcato l’ingresso, Büchel affianca subito le sedute facoltose di un’asta in fieri alle carrozzine dismesse dalle case di riposo e a una distesa di barelle che ricordano quelle avanzate dal Covid: la mercificazione della sessualità, delle passioni, degli ideali, del credo religioso, sino a ricadere nei singoli vissuti anonimi, annichilisce il “sentimento del tempo” che tanto ci preme, la funzione salvifica della memoria collettiva che esula dal culto dell’individuo, ma tramanda esperienze. Tra kitch e rarità, emerge tangibile la citazione del saggio “La memoria degli oggetti” (Mimesis, 2023), ma soltanto per la copertina esplicativa.

La camera da letto

Büchel ricostruisce una serie di ambienti consueti, da interni casalinghi a uffici, guardiole e altri mestieri ordinari, procedendo per scansione delle abitudini. La camera da letto si apre su una schiera di scrivanie munite di pc che riproducono la propensione attuale dei ragazzi di giocare online durante le ore notturne, per passare al centro della stanza con letti matrimoniali e comò, finendo con una lunga tavola imbandita a ridosso del muro: una rappresentazione ingombrante e fuori luogo de “l’Ultima Cena” di da Vinci, che interpreta il gesto borghese di appendere scene del Vangelo sopra la testiera del talamo nuziale, e dunque di svilirle.

Lo spaesamento che genera alla vista una montagna di abiti dismessi sotto uno degli affreschi a piena parete rammenta la “Venere degli stracci” di Pistoletto, risalente al 1967. Il processo di dissoluzione dei canoni estetici si intensifica salendo di piano in piano, verso l’alto, in una sorta di ritorno a un cielo terso, all’opposto rispetto alla sublimazione artistica per cui l’opera riuscirebbe a restituire dignità agli scarti del quotidiano, almeno nella boutade inscatolata da Manzoni con la famigerata “Merda d’artista” (1961). Poco lontano, il calco della stele di Rosetta e diverse tavolette mesopotamiche in argilla sono affiancate a lavatrici e asciugatrici dismesse, e a stock di sanitari. Il moltiplicarsi di associazioni visive sfocia in un processo di giustapposizione semantica, ovvero quando un significato ne precede parzialmente un altro per fattori di priorità culturali e sociali limitati allo sguardo del fruitore.

Al piano nobile

L’arte affoga in mezzo a un artigianato pressapochista, in netto contrasto con il lotto di piatti in maiolica della collezione Giovanni Pietro Campana, assegnata al Louvre nel 1862 dallo stato francese che l’aveva acquisita l’anno precedente. Il marchese Campana fu direttore generale del Monte di Pietà di Roma, dal 1839 al 1857, sotto la cui egida conobbe un periodo florido di crescita economica. Campana utilizzò diverse strategie illecite per finanziare una collezione tra le più prestigiose d’Europa: il suo stipendio, prestiti personali finanche l’utilizzo dei fondi dell’istituzione. Un’ingordigia conclamata che lo condusse all’accusa e alla condanna per appropriazione indebita.

Fonte: Il Sole 24 Ore